PREGHIERA
La vetta era ancora lontana. Il sole scendeva
velocemente e le rade nubi scure, immobili nel cielo terso, proiettavano l’ombra sulle colline in fondo
coronate, più in la, dalle Withe Mountains innevate che risplendevano degli
ultimi bagliori pomeridiani.
La chiesetta lassù l’avrebbe raggiunta in poco più di
un’ora. Si stagliava giusta sulla sommità a protendersi verso il cielo. Non un
alito di vento nella tiepida primavera che giungeva. L’erba invernale, verde e
gracile si piegava morbida sotto il passo cadenzato.
“Ancora
un’ultimo sforzo”.
Piccola,
bianca, con una croce sul tetto a volta, in pietra candida rifletteva gli
ultimi raggi e sembrava fluttuare nel cielo.
“Mi fermerò
un pò, poi scenderò col buio”.
Era abituato ai percorsi notturni illuminati dal solo
chiarore delle stelle. Voleva sostare un poco e stare raccolto con i
pensieri, accarezzare le emozioni, forse
le paure ed entrò spingendo il piccolo battente della porta che si apriva sul
muro bianco. La luce fievole della
finestrella in alto, sopra la porta, illuminava appena i quattro banchi e
l’altare, il crocifisso dipinto su un pannello a sfondo dorato sospeso al
soffitto contro la parete di fondo, l’inginocchiatoio per le confessioni e
alcuni santi in blu dipinti sulle pareti . Tutto era in penombra.
“Che pace”.
Si sedette, poggiò la testa sulle ginocchia e pregò.
Cosa inusuale ma ne aveva proprio voglia,
poi si drizzò sullo schienale del banco e guardò il crocifisso che
luccicava debolmente riflettendo la luce della finestra di fronte.
Lentamente scivolò nel passato più
remoto. Pensò a sua madre morta da qualche anno e sentì ancora il vuoto della
dipartita. Non era stato capace di riempire la cavità del cuore in cui dimorava
l’amore per lei. Non si era arreso all’ineluttabilità degli eventi che
costruiscono la vita. I riflessi dorati che apparivano e poi subitamente
sparivano per l’ondeggiare di quel corpo appeso lo ipnotizzavano,
meccanicamente iniziò a muovere le labbra.
“Sola, ti abbiamo lasciata andare da nostro padre
partito anzitempo e che hai raggiunto,
desiderosa di completare il viaggio interrotto.
Ascoltavo
spesso, non veduto, i soliloqui nei quali esternavi le tue paure. I tuoi
rancori repressi mi rattristavano ma li esprimevi sottovoce solo quando, non
veduta, armeggiavi in cucina. Mi dispicevo nella consapevolezza della
sofferenza, del disagio che ti sei portata appresso.
Ti ho vista
riversa sul letto, quella mattina che dovevo partire. Fredda, immobile e rigida come l’espressione
delle labbra bloccate in un terreo e debole sorriso, senza ombra di dolore e di
paura. Forse solo un pò di dispiacere di andartene così, senza salutarci. Avevi
forse qualcosa da dire e non l’hai detto? Non mi hai mai parlato delle tue vere
sofferenze se non dopo, quando erano passate e già cementate in te.
Ricordo
l’espressione del tuo viso serio, i tuoi sguardi lontani, proiettati oltre
l’oggi, ora indagatori, ora supplici ma privi di richieste se non di una
semplice domanda di presenza.
Oggi pranza
con me.
Mi dicevi
affacciandoti alla finestra del mio ufficio che dava sul giardino.
Non hai
chiesto approvazione per i tuoi atti e mai hai dubitato della tua missione
facendoti forte di una presenza perenne. Quando mi guardavi con gli occhi seri,
tristi e sconsolati, per una nipote problematica che hai amato e accolto come
hai fatto con noi, ho sentito il peso
del tuo dovere sopportato con dignità.
Ho goduto del
tuo amore ma poco delle tue carezze.
Mamma presente sempre ma lontana, immersa in un desiderio che ti rendeva
intoccabile e bramata da un bambino che moriva di ammirazione. Era come
sentirsi pieno, calcato di venerazione, non c’era spazio per altro, ancora una
goccia e tutto sarebbe straripato andandosene. Come mi diceva un’amica, forse
dovevamo parlare di più e ormai è tardi se non per i rimpianti o per le
emozioni che riesco a ricordare con questa mente malata.
I tuoi occhi
“ancora mi scrutano quasi a voler sapere
ciò che io stesso non so”. Uccidi, ti prego, per un’unica e definitiva
volta, per sempre, questo cancro che mi
divora e che mi hai donato insieme alla vita. Con lo sguardo mi hai sempre
seguito, con affetto ci siamo cercati innumerevoli volte ma ho sempre costruito
muri e lasciato pertugi di solo amore: unica dimensione che è sempre stata
nostra. E’ in nome di questo affetto che ti chiedo, anche se vecchio, di
completare l’operazione debolmente iniziata,
di chiarezza, di accoglimento o di finale e fatale rifiuto. Ho sempre
avuto bisogno delle tue parole anche se non le ascoltavo.
Ci sono
giorni nei quali l’emozione del tuo ricordo mi toglie la voglia di vivere
perché di lottare contro le avversità non ne ho più voglia. In altri, la stessa si chiude intorno a me
come a proteggermi ma mi sento soffocato in essa pur godendo nella memoria dei
momenti trascorsi assieme. Altri
ancora, mi aprono i segreti ricordi,
ormai quasi dimenticati, dei miei successi ed insuccessi che tu, da distante,
commentavi o quelli delle mie azioni che approvavi o disapprovavi o, come un
angelo anche castigatore, seguivi.
E ricordo
quando correvo nudo per i campi col temporale che rovesciava su di me pioggia e
freddo e i piedi poggiavano su erba, acqua e fango in un rumore di vita piena e
tu non ti capacitavi del mio bisogno di spogliarmi e fuggire. E quando mi
cercavi in bici lungo gli argini del fiume mentre io, nascosto tra le canne
della riva, infreddolito poiché era aprile, ascoltavo i tuoi richiami disperati
mentre gridavi angosciata il mio nome ... e poi sberle a non finire. Quanto ti ho voluto bene mamma! E quando mi
hai sfidato dal dottore perché ti avevo detto che togliere i punti dalla gamba
era una cazzata e non serviva recarsi all' ambulatorio. Apersi le graffe che
tenevano il taglio fattomi dal cugino con una sciabolata, ne avevamo costruite
due togliendo dalla macchina dello zio d’america due lame dalle balestre. In
quell’occasione ti ho mostrato con orgoglio quanto fosse semplice per me
accettare il dolore ... sono un uomo, dissi, e mi accarezzasti la testa. E
quando hai saputo che, per la prima volta, leccai la mona di un’amichetta non
mi hai picchiato ma ti sei messa a piangere ... io non capivo allora ... e mi
dicesti solo: non è bene. Quando per
dispetto, per uno schiaffo di mio padre, ho impiccato il gallo alla trave del
magazzino tu semplicemente e guardandomi, senza proferire parola e punirmi, lo
hai cucinato.
Più recenti
ricordi mi uniscono al tuo nome. Ti sei rammaricata fino alle lacrime quando vi
ho imbrogliato sulla data della laurea. Temevo la vostra presenza genitoriale e
volevo solo farvi una sorpresa: il primo laureato in famiglia. Al matrimonio non
hai eccepito alcunché, hai solo detto: sei sicuro? Quando nacque mia figlia mi
hai sorriso dicendomi: che bella bambina, fatene ancora. Alla separazione hai detto solo: questa è casa tua.
Sono il terzo. Quello senza collocazione,
quello che si basta, quello che “tanto è lo stesso”, che sa sopportare e
capire. Sono quello che contesta e scompiglia
e che, diversamente da altri, ubbidisce e nel contempo nega la stessa
obbedienza. Mio padre diceva: tu porti disordine in famiglia. Sei sempre stata
presente, dedita al dovere anche tu come me,
perchè da te l’ho imparato. “Bisogna esserci anche senza voglia”. Tutto
era sempre faticoso, pesante così tanto che anche le gioie ricavate erano grevi.
Da piccolo anche i sorrisi erano rari ma
non la mia felicità di vederti, di osservarti, di accarezzare la tua pelle
liscia e bianca. La tua voce era un inno alla vita, uno stimolo, uno stantuffo
che mi percuoteva il cuore. Non so perché mi son sempre portato dentro, e l’ho
trasmesso a mia figlia, il bisogno di sentirmi approvato, considerato, figlio
importante forse unico. Una carezza, un bacio, pochi di noi li hanno avuti in
abbondanza ma tutti ti abbiamo amato per la dedizione donataci.
Tutti ti
abbiamo amato, nelle forme diverse a noi caratteristiche, ma la tua bravura nel
tenerci uniti si è incrinata con la tua dipartita. Ogni sera guardo la tua
foto, mi sembri lontana come quando non ci capivamo nelle discussioni, nei
confronti. Il dialogo non ci ha
avvicinati ma la pelle si, lo stare seduti vicini a guardarci, sentire che
c’eravamo. Questo ci ha uniti. Abbiamo necessariamente avuto tutti percorsi diversi. Io mi sono allontanato dai
tuoi desideri ma ci ha uniti un parallelismo che ci permetteva di controllarci
anche da lontano.
Vedo ancora
il tuo viso tra le frasche di una riva, dietro il banco dell’osteria o china su
di me da piccolo. Poche volte sei stata china su di me ma le ricordo tutte. Non
facevano male i tuoi scapaccioni, non mi
hanno mai fatto male neppure quando mi hai rotto il naso. Lo dicevi pure tu che
ero un mulo e forte come un toro. Le tue sberle erano come carezze perché mi
facevano sentire il tuo calore. Volevo
che qualcuno mi stringesse ma non eri quasi mai tu a farlo. Forse per questo ho
tenuto al petto mia figlia ogni momento che potevo dandole solo affetto e poca
maestria ma non ne avevo neppure io. A lei non ho creato questo vuoto doloroso
ma un altro, forse peggiore, per la mia incapacità di amare diversamente.
Ora, la
memoria un pò mi tradisce, ricordo il calore della famiglia quando era unita,
di noi fratelli e di voi genitori un po' più in la. Sono quel che sono, così
come mi hai fatto e conosciuto, in bilico tra la trasgressione ed il dovere,
con l’unica sicurezza del mio affetto per te che è sempre stato sincero, di
quella sincerità che ha rovinato parte della mia vita. Io, dichiarato bugiardo,
non ho mai mentito. Le bugie sono altro e poco importanti.
Ho un solo
rammarico: non ho potuto parlarti di me, non avresti capito”.
Aveva le lacrime agli occhi quando si alzò. Prese il
bastone da passeggio che aveva poggiato sulla panca e si caricò lo zaino sulle
spalle. Uscendo si girò per guardare il crocifisso che splendeva un pò di più.
Fuori il buio si era accomodato sulle montagne. In fondo alla valle brillavano
poche luci a indicare la meta.
“Spero di non
smarrirmi ancor di più”.
S’incamminò nelle tenebre rotte da un brillio di
stelle che illuminavano poco il sentiero e lo costringevano ad una discesa
lenta e attenta. Aveva modo di stare così con i pensieri come dentro la
chiesa. Il volto della madre davanti,
dietro tutta una vita. La tristezza lo pervadeva, certo che la fine sarebbe
giunta presto.
“Che sia indolore”.
Scendendo recitò una poesia che aveva scritto e non ebbe il
coraggio di farla leggere ad alcuno.
Ho pregato mia madre di nome
Speranza
Davanti alla tua immagine
dimentico e smarrisco,
atti e azioni
opere e imprese.
Confondo i contorni di figlio
già vecchio.
Azioni dimenticate,
desideri rimasti tali
confondono il passato.
Di padre, di figlio
conservo il ricordo,
di uomo non so.
Raccontami chi ero.
La vita squassata
ha dissolto la memoria.
Dimmelo tu che mi guardi
seria
volgendo lo sguardo
al nostro passato.
Canta la storia
esorcizza il mio vivere
inquieto.
Dimmelo tu che scruti lontano
e speri nel nome che porti.
auspicio di bene.
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