AL
PSILORITIS
La camera ora era
diventata sua, il grande letto a due piazze con quattro materassi: due sotto di
crine e due sopra di lana che ogni anno venivano rimessi a nuovo dai Rocco.
Quasi tutta la famiglia: padre, madre e due figli, arrivavano col carrettino agganciato alla
bici con sopra installato il loro
aggeggio oscillante, irto di chiodi
curvi e a forma di bilanciere. Stazionavano sull’aia al primo sole di primavera
e, dopo aver disfatto i materassi con attenzione togliendo le trapuntature, ammonticchiavano
la lana su di un telo di nylon steso a terra. Con fare cadenzato e ritmato da
filastrocche la dipanavano ben bene e la facevano ridiventare morbida e
soffice, infine ricostruivano i materassi attenti a rifare le trapuntature sui
precedenti solchi.
Da un anno, da
quando suo padre aveva restaurato la casa, dormiva in quella stanza che fu dei
nonni paterni. Grande più delle altre ma esposta a nord-est, quindi fresca
d’estate e fredda d’inverno ma, non importava, “era la sua camera”. Aveva tutto,
i comodini con i pitali, il comò a quattro cassettoni, la toilette con lo
specchio sul quale ci si poteva rimirare a mezzo busto ed i cassetti laterali.
Infine l’armadio a tre ante con il grande specchio centrale dove erano riposte
anche le coperte ed i piumoni.
“E coltre”.(i piumoni)
Era il suo regno.
Li leggeva, studiava e disegnava. Amava dipingere come la zia Ofelia che si
dilettava a copiare immagini di cartoline e ritratti dei divi di Hollyvood. Ne
scaturivano immagini un po’ naif ma che mostravano capacità anche in mancanza
d’insegnamenti. Lì lui declamava poesie e brani teatrali, i cui testi trafugava
dall’archivio o dalla biblioteca della canonica, quando andava a servire messa
come chierichetto. In quel luogo la fantasia si esplicava nelle forme insolite
dell’immaginazione: avventure, viaggi in terre ignote, guerre guerreggiate a
fil di spada, invenzioni ed emozioni.
Amava quella la casa rinnovata, gli piaceva tutta ad
esclusione del tetto che aveva sostituito il precedente, formato da una sequenza
di falde a capanna che caratterizzavano l’edificio come una vecchia fornace per
la calce.
Un giorno tornando
da scuola, gli operai avevano tolto le impalcature, la copertura si mostrava
nella sua nuova veste: due falde uniche anziché otto come prima, però poste una
sull’altra ad altezza differenziata ed in conseguenza di ciò la prima falda,
che dava sulla strada, finiva contro il muro che reggeva, un metro più su, la
seconda; ne risultava quella
caratteristica e dozzinale architettura dei tetti degli anni ’60. Ad Alex non
piacque, anzi la trovava una scemata, e corse incontro al padre padre, fermo in
piedi sul cortile a discutere col geometra, gridando:
“ Popà …popà … i ga sbalià el querto, no el
s’incontra de sora, serve che i lo rifassa, l’è cussì bruto co fa un cesso, a
par ‘na casa che ghigna!” (papà..papà.. hanno sbagliato il tetto, non si
incontra nel colmo, lo devono rifare perché è così brutto che sembra un water,
sembra una casa che sogghigna!)
“No caro”.
Rispose il padre
accarezzandolo sulla testa irta di capelli diritti come spaghi.
“A xe na roba moderna come che i fa desso” (E’ una
modernità come si usa fare ora).
Accettò a
malincuore la risposta, così come data e si allontanò mesto dalla figura
paterna dirigendosi verso la porta che dava sulla sala grande dove la madre lo
aspettava per il pranzo e, alzando gli occhi, lanciò ancora uno sguardo a quel
tetto:
“A xe na
casa col ghigno,”
Al piano terra i
vani erano adibiti a osteria e nella
sala grande troneggiava la stufa in ghisa subito a ridosso della porta
d’ingresso. Sulla destra il vecchio bancone era stato sostituito, come i tavoli
col piano in granito, da una serie di mobili moderni in formica: i tavoli rossi
striati di bianco ed il banco bar, con la vetrinetta di vetro incassata per metà,
era verde a chiazze bianche. La grande novità era la macchina per il caffè di
marca Gaggia con un unico pistone. Al doveva salire su una cassa di legno,
quelle vecchie, gialle della “cocacola”,
per appendersi al pomolo della leva e tirare. Solo la grande cucina e la sala
da pranzo conservavano, nei mobili, un vago ricordo della precedente ma la
cucina di pietra con il piano in ghisa a tre fori con cerchi concentrici ed il
trespolo a manovella per mescolare la polenta sul paiolo era stata sostituita da una “cucina economica”.
Così definivano allora le cucine a fuoco in lamiera smaltata di bianco. Era la
zona privata ma una larga porta a vetri a tre ante, che dava sulla sala
centrale dell’osteria, annullava tutta la possibile privacy.
Salutò la madre
baciandola, buttò la cartella sulla sedia e, sconsolato per quel tetto col
“ghigno”, si sedette in attesa che gli servisse il pranzo.
“Oggi è sabato, dopo pranzo devi fare il bagno, il
boiler è acceso e l’acqua quasi calda”
“Va bene”.
Rispose guardandola
e sorridendole replicò:
“Oggi però lo faccio da solo”.
Poi, pappata la
pasta e spazzolato il piatto con la mollica, senza proferire parola, salì le
nuove scale in marmo fredde e rumorose ai passi e non calde e cigolanti come
quelle vecchie di legno di larice, odorose di casa e di famiglia. Si chiuse in
camera e denudatosi completamente si infilò sotto il piumone per scaldarsi un
po’. Man mano che quella cuccia lo riscaldava la fantasia prendeva possesso ed
Al iniziò uno dei soliti fantastici viaggi.
A destarlo la voce
perentoria della madre che gli intimava di fare il bagno, la vasca era già
colma e doveva fare presto perché poi sarebbe stata la volta dei fratelli.
“Se te te desbrighi el bagno te o fè da soeo se no
te o fè co Carlo”. (se ti sbrighi il
bagno lo fai da solo altrimenti in vasca ci viene anche Carlo).
Di
solito faceva il bagno con i fratelli, due alla volta per risparmiare
sull’acqua calda poiché il boiler funzionava a legna e bastava per riempire una
sola volta la vasca, poi bisognava aspettare almeno mezz’ora. Al solo pensiero
di condividere quello stretto spazio, di dover stare rannicchiato su un lato
mentre il fratello si lavava sull’altro, saltò giù dal letto e si diresse al
bagno rabbrividendo al fresco del corridoio, entrò nell’acqua calda e si
distese per tutta la lunghezza della vasca.
Un sommozzatore
della X^ Mas che si immergeva nelle profondità marine alla ricerca di pertugi
sulle reti di protezione del porto dove stavano ancorate le corazzate. Doveva
trovare un passaggio per minare gli scafi nemici. A bordo del suo siluro a
lenta corsa stava transitando tra le maglie tagliate della rete di protezione
quando:
“E ora gheto finio?” (e allora hai terminato?)
La voce calda della
madre interruppe l’avventura nautica. Al si levò dalla vasca, prese
l’asciugamano grande, verde come la sua pianura padana e si asciugò troppo in
fretta, lo gettò umido sullo sgabello e corse nudo, ancora gocciolante,
attraverso il corridoio lastricato con marmette in graniglia di marmo,
policrome ma fredde e, rimpiangendo le precedenti assi di larice, apri con uno
spintone la porta della camera. Si rinfilò sotto il piumone, tiepido del suo
calore e immaginò un’altra avventura.
Da un po’ si stava
avventurando tra i meandri di un fiume lento, coronato da salici e pioppi a
bordo di una canoa di pelle di daino, armato di arco e frecce, quando la voce
di sua madre lo strappò nuovamente dal suo viaggio fantastico.
“Ti sei vestito … lo sai che devi fare i compiti.
Non si dorme al pomeriggio se prima non si è compiuto il proprio dovere”
Sua madre, santa
donna, non lo capiva. Lui aveva bisogno di quegli spazi lontani, di quelle
fughe nel regno della fantasia. E alla sera rincarava la dose di
raccomandazioni.
“Te digo de metterte e mudande no ze va in leto
sensa e tegnate a majeta dea saeute)” (Ti ripeto di infilarti le mutande, non si va a letto senza e tieni
addosso la maglietta di lana).
Predicò
la madre affacciandosi alla porta per capire cosa fosse successo al figlio, di
solito allegro e rumoroso e ora imbronciato e silente. Quindi sospirando e
scuotendo la testa la richiuse.
Al, coperto fino al
naso, prima alzarsi diede un occhiata alla camera soffermandosi sul ritratto
della madre: i capelli neri, corvini, gli occhi ridenti di un nocciola chiaro
che quell’immagine in bianco e nero appesa alla parete, tra le due finestre
della camera da letto, non rendeva. Il
profilo perfetto e il sorriso che appena traspariva lo ammaliavano. La foto era stata collocata nella camera
proprio difronte al letto in radica scura di noce nazionale. Lei, nella postura
dei tre quarti, lo guardava col sorriso appena abbozzato, i capelli raccolti da
una treccia che cingeva la nuca come la corona di una principessa. Lei era una
principessa: bella come potrebbe esserlo una fiaba, luminosa come il mattino,
evanescente come un pensiero, grande come tutte le madri. L’immagine
troneggiava in un ovale profilato d’oro come la cornice, unica nota di colore.
Ogni sera, quando
si stendeva sul grande piumone d’oca che fu della zia, ammirava quella foto che
suo padre volle lì. Amava quel volto sereno. Gli infondeva pace, lo portava in
giro con i sogni. Assieme visitavano
luoghi remoti, fantastici, inaccessibili ai più, tutti quelli che poteva immaginare un
ragazzino di dieci anni che leggeva di tutto oltre ai romanzi di avventura che
gli comperava la madre: dal breviario sottratto al prete nel servizio
domenicale di chierichetto alle riviste di moda francese che trovava nella
sartoria della zia, dai giornali vecchi rubati sul retro del magazzino del
tabaccaio alle riviste osè che aveva trovato nella camera del nonno. Amava
leggere. La lettura era la sua porta per la libertà.
“E ora te e gheto
messe? (Allora te le sei infilate?)
“No mama, no me e meto”
(No mamma, non le indosso!)
“Almanco metate e
braghe del pigiama” (Almeno indossa i
pantaloni del pigiama.)
“No se ghin parla
gnanca”. (non se ne parla nemmeno)
Così
costruì la sua abitudine a dormire senza mutande e quando poteva anche senza
pigiama. Di notte tutto quello che non fosse quel grande piumone che lo
difendeva dai rigori dell’inverno o il leggero e fresco lenzuolo di raso
d’estate lo sentiva soffocante.
Gli
otto anni di collegio furono una battaglia continua. Compagni e chierici lo
guardavano con disapprovazione o curiosità e a volte con desiderio quando si
denudava per infilarsi il solo pigiama. Dormire nudo lì era impossibile ed
anche non consigliabile. Aveva un fisico asciutto, muscoloso e scattante,
praticava tutti gli sport praticabili in quel collegio rinomato ma il suo
desiderio di nudità cozzava con quel luogo celibe.
“Gheto fato, vegno
dentro?” (Hai fatto, posso entrare?)
“Ma si mama, te o zè
che te poi vegnere drento, ostia, te me ghe fato ti” (Ma si mamma, lo sai che puoi entrare, cavolo, mi hai fatto tu!)
“O so, ma no sta ben
mostrare e vergogne” (Si ma non sta
bene mostrare le nudità). Rispose entrando.
“Ma, mama, te me fe fare el bagno so a vasca
co e mudande anca co zo da soeo. Pasiensa co o fazo co me fradei”. (Ma,
mamma, mi fai fare il bagno nella vasca con le mutande addosso anche quando
sono da solo. Pazienza quando lo faccio assieme ai miei fratelli).
Lei guardò il figlio e sorrise. Prese
le mutandine bagnate che Al aveva appena poggiato sul comodino e lo guardò con
amore. Dal piumone spuntava solo la testa umida e arruffata. Si avvicinò ed accarezzò i capelli umidi.
Quel tocco pervase Al di un’intensa emozione d’amore e rispetto per la madre.
Come una fiamma scaldò il ragazzino tremante immerso nelle volute del grande
piumone e… due sorrisi si incontrarono felici. Conservava il ricordo di quel
momento, era una reliquia piantata nel cuore che nei momenti tristi lo
rasserenava e gli infondeva forza. Il pensiero di sua madre lo seguiva
quotidianamente, era la sua compagna di viaggio.
Lei uscì dalla
stanza con la roba sporca sottobraccio e Al ammirò quella schiena perfetta
disegnata dalla camicetta lavorata ad uncinetto, solo un po’ incurvata dalle
fatiche di una famiglia numerosa, dalla gestione di un’antica “hostaria” e di
un marito tendenzialmente scapestrato.
Aveva questi
ricordi quando si svegliò alle prime lame del sole che, filtrando tra le foglie
della folta buganvillea del portico, entravano dalla finestra aperta. Sul letto
si spandeva un baluginio di chiari e scuri e sembrava ad Al di galleggiare in
un mare immenso senza orizzonti. Probabilmente, pensò, erano i frammenti di un
sogno. Tornava forse da un viaggio cosmico con sua madre, uno di quei viaggi
che aveva tanto sognato negli anni della pubertà.
A poco a poco prese
consapevolezza. La stanza si raddrizzò e tutto riprese ordine. Dalla porta
filtravano i rumori della prima colazione che Miriam stava preparando.
Insolitamente si era alzata per prima. La colazione era sempre stato un suo
compito: fare il caffè, scaldare l’acqua per il te e intiepidire il latte,
tagliare il pane e abbrustolirlo in forno, tagliare il burro a dadi affinché si
ammorbidisse ed imbandire la tavola. Era un rito che gli piaceva e che gli
permetteva, un po’ alla volta, di riconnettersi con la quotidianità. Vestendosi
guardò fuori dalla portafinestra della camera pensando alla giornata che si
presentava: il sole splendente, in cielo nessuna nuvola e la leggera brezza che
veniva dal mare faceva ondeggiare i rami carichi di verde e fucsia della
buganvillea abbarbicata al pilastro di legno davanti al portico della camera
che dava ad ovest.
Nel vestirsi, come
al solito dormiva nudo, si guardò allo specchio appeso alla parete: “la pancia non c’è più…la pancia non c’è più” canticchiò sotto voce. Si sarebbe lavato dopo
colazione. Da quando era arrivato a Creta, pur mangiando con appetito ed in
quantità, aveva perso undici chili e riacquistato una forma fisica invidiabile
per l’età. Strizzando l’occhio alla figura che lo guardava dallo specchio si
complimentò con se stesso ed uscì dalla camera.
Miriam lo attendeva
seduta sotto il portico con l’immancabile libro poggiato sulla tavola imbandita
e gli occhiali da vista calati sul naso. Leggeva due libri alla settimana,
anche tre. Quando non c’erano ospiti di cui occuparsi la sua attività
principale era stare sdraiata al sole a bordo piscina e leggere. Al invece
andava a pescare.
“Ciao, che bella giornata!”.
Miriam, intenta
alla lettura, rispose con un cenno della testa.
“Oggi che si fa? I prossimi ospiti arrivano tra tre
giorni.”
“Io sto a casa, devo anche fare il bucato e la
piscina è da pulire”.
Rispose alzando gli
occhi e guardandolo da sopra l’archetto degli occhiali.
E di rimando:
“Ok, lo
so, poi vado a pescare a Panormo”.
Disse versandosi il the bollente sulla nuova
tazza dall’interno verde, acquistata il dì prima a Rethymno in un negozio di
“second hand”.
Fecero colazione a
bordo piscina, senza chiacchere, solo due parole per organizzare la rispettiva
giornata. Quei giorni non essendoci clienti da coccolare, colazioni o cene da
preparare, erano solo di assoluta
libertà. Lei decise quindi di prendere il sole in piscina e leggere lui,
abbandonata l’idea della pesca, di fare una lunga camminata dopo aver pulito la
piscina dalle foglie portate dal vento serale. Aveva intenzione di visitare le
zone attorno ad Anogia, dove era già stato, per analizzare eventuali percorsi
da fare in autunno quando il sole avrebbe allentato la sua morsa di calura.
Preparò lo zainetto
e calzò gli scarponcini da trekking prima di prendere la strada per Heraklion e
poi la deviazione per Perama, che l’avrebbe indirizzato alla volta del
Psiloritis (che in greco significa “il più alto”) dove il Monte Ida ne
rappresenta la vetta. Fece però un salto al porticciuolo di Panormo per un
caffè con l’amica Marta che gestiva un kafeneio e non gliela dava perché
sposata.
Attraversò Perama
alla volta di Agia Sillas, la strada era larga ed asfaltata, le curve dolci non
lo impegnavano tanto e poteva bearsi del paesaggio. A sinistra si apriva la valle scavata dal
fiume Geropotamos, giù in basso tra le
pareti scoscese e brulle un serpente verde di querce e castagni seguiva
l’andamento dei meandri allargandosi nelle parti interne delle curve dove
l’acqua stagnava. Si domandava se ci fosse anche qualche esemplare di Platanus
Orientalis, un sempreverde che si trova solo nell’isola. Amava documentarsi sui
luoghi che avrebbe visitato.
Solo a tratti si
poteva scorgere il letto del fiume ora quasi asciutto per il caldo torrido
dell’estate e la mancanza di precipitazioni. Nella gola, sui pendii pascolavano
greggi di pecore che lentamente scendevano verso il fondo valle. Il culmine
della canicola lo trascorrevano accovacciate ai piedi degli alberi. Non un
pastore, non un cane da guardia, sarebbero arrivati più tardi per ricondurle
all’ovile. Il poco traffico lo lasciava nella sua tranquilla guida da
spettatore. Passata Sillas ed il bivio per Garazo continuò nella direzione per
Damavolos lasciando sulla sinistra il paesetto di Kafali. Tutto intorno alla
strada che cominciava a salire, distese immense di oliveti tenuti come giardini
e irrigati da una rete fitta di tubi neri che come vene portavano il rigoglio
su quella terra aspra e secca e cosparsa di rocce e sassi. L’orientamento e la
regolarità delle piantumazioni dei vigneti inframezzati da zone boschive e
radure scabre disegnavano un paesaggio damascato di verde e ocra che l’arsione
faceva ondeggiare quasi come un miraggio.
Al prese la
bottiglia d’acqua che stava infilata nella nicchia sul cruscotto nero reso
incandescente dal sole e bevve un sorso
d’acqua calda storcendo la bocca. Non aveva l’abitudine di usare il
climatizzatore, gli piacevano i finestrini aperti e l’aria tra i capelli. Si
accese una sigaretta e poggiò l’avambraccio sulla sede del finestrino
abbassato.
Affascinato dal
paesaggio, lo confrontava con i ricordi di Puglia e Sardegna cogliendone le
analogie. Respirava un’aria densa di profumo d’erba e foglie secche , si
inebriava delle fragranze di ciste e malva che si andavano spegnendo, di
dianto, ginepro e asperula. Ogni tanto qualche fiordaliso di Creta dal cuore
bianco e i bordi di un indaco che virava al violetto attiravano la sua
attenzione. Si fermava, scendeva a guardarli con la bottiglia di plastica in
mano e li bagnava un po’ nella speranza che al ritorno potesse ancora
ammirarli.
Una foto e via di
nuovo sulla strada che lentamente portava ad Agios Ioannis lasciando Kefali
sulla sinistra abbarbicato sul costone con le case biancheggianti al sole ed il
serpeggiare della sterrata che lo raggiungeva strisciante come una biscia. Il
paesaggio iniziava a mutare, diveniva sempre più secco ed agresto, agli uliveti
si sostituivano rocce e argilla scura in un andirivieni di chine e distese,
valli e doline cosparse di cespugli spinosi dai fiori gialli ed azzurrini. L’orizzonte
si allargava cogliendo le vedute sul Piloritis o monte Ida dove nacque il mito:
da Rea nacque Zeus che la capra Amaltea sfamò e allevò.
La strada
s’avviluppava alle montagne ora in dolci
salite ora fiancheggiando orridi e strapiombi.
Al guidava con attenzione e rilassatezza ed ogni tanto si fermava dove
la strada in una curva o in uno spiazzo permetteva vedute mozzafiato. A volte
scorgeva anche il mare in lontananza. Il sole abbacinante lo costringeva agli
occhiali da sole e al frontino abbassato, sicché per
osservare doveva alzare il mento e traguardare. Il silenzio assoluto era rotto
solo da un leggero fruscio d’erba secca agitata da qualche folata di vento.
Quella leggera brezza scrollava i capelli ma non faceva altro rumore.
Man mano che
procedeva il paesaggio si faceva sempre più arido e spoglio e il sole,
riverberato dalle pietre bianche, diveniva sempre più abbagliante, sicché
abbassò anche il frontalino parasole dell’auto. Il silenzio divenne assoluto,
anche il vento taceva. Cominciava a sentire l’ansia premere sullo sterno. La
gioia che aveva con sé dal mattino lasciava lentamente posto ad un senso di
insicurezza, di precarietà. Lo colse l’agitazione del dubbio. Il paesaggio che
lo affascinava da rigoglioso lo vedeva e sentiva divenire brullo e sterile e
capì che stava per giungere un momento di sconforto. Gli capitava, quando
teneva a freno per troppo tempo le emozioni dei ricordi: la figlia, il paese
lasciato, il lavoro.
“Mi devo fermare”.
Mormorò a bassa
voce.
“I xe i me soiti colpi de mona” (sono i miei soliti momenti di rovescio).
Fermò l’auto su
ciglio della strada, in un piccolo slargo e scese. Si sedette su di un masso
squadrato, dall’aspetto foresto, forse lasciato ai tempi della costruzione
della strada, poggiò la bottiglia e prese il pacchetto di sigarette.
“Una
fumatina”.
Disse ad alta voce,
osservando il fumo salire stanco nella calura, in attesa che passasse
quell’affanno, quel cruccio che lo aveva assalito di sorpresa. Alzò lo sguardo
al cielo, su in alto, con le ali aperte, strideva un falco stagliato contro il
sole: solo e magnifico.
Di fronte a lui si apriva una piana cosparsa
di ciuffi e arbusti a disegnare come una grande pelle di leopardo. Il vuoto annullava i pensieri e i pori aperti
coglievano rumori e umori in una tensione di indefinito. Era intento ad
assaporare i profumi ed ascoltare i pochi fruscii che, soffiando ogni tanto, la
brezza estiva gli portava ovattati dal caldo silenzio, quando ebbe la necessità
inconsulta di voltarsi, lo fece …. e vide sua madre. Era lì seduta accanto che
lo guardava con l’espressione serena e severa come nel tempo in cui, vecchia,
lo apostrofava per qualche rimbrotto. Lo osservava silenziosa, con occhi
amorosi, nocciola, annacquati dagli anni e dalla cataratta, seria ma, al
contempo, il sottile e appena accennato sorriso gli sussurrava l’amore che per
lui aveva sempre provato. Lo conosceva e lo coglieva tra le rughe evidenti
dell’età, nel bagliore di quegli occhi spenti ma vivi, nei capelli grigi
cadenti che conservavano solo un ricordo del nero corvino. Lo scosse un
tremito. Lei lo guardava, come sempre, piena di affetto, come quando, soli, si
sorridevano in ogni occasione d’incontro ed un singhiozzo scaturì dalla sua
gola. Lei, come quella volta che andò a farle visita in ospedale, seduti
ambedue sul bordo del letto, poggiò la testa sulla sua spalla destra e non disse altro.
Ricordò il giorno
della visita quando lei, con la testa china sulla sua spalla mormorò: “Al …. Che vita dura…. Ti sono riservate
prove difficili … Io prego, prego sempre che Lui ti dia la forza, che illumini
il tuo cammino e quello di tua figlia... Sento che ritroverà la strada ma …” La
pausa durò a lungo. Sembrava annaspare in una miriade di pensieri. Alzava
spesso gli occhi umidi ad osservare il soffitto come per cercare una risposta,
come se di lassù qualcuno le suggerisse le parole e riprese asciugandosi una
lucida lacrima sulla spalla del figlio. Poi, continuando a guardarlo fisso
negli occhi cerulei:
“Promettimi che le vorrai sempre bene…. E’ l’unico
modo per salvarla”
Concluse
accarezzando la mano destra del figlio e con voce fioca:
“Sono stanca, aiutami, desidero sdraiarmi”
Al si alzò
ponendosi di fronte ed abbassandosi in modo che lei potesse cingergli il collo
con le braccia e farsi sollevare. Si stese sul lenzuolo bianco poggiando la
testa sul soffice cuscino di piuma che si era portata da casa. Con un gesto
dolce, caratteristico della sua natura, con la mano sparse i capelli grigi,
ormai lunghi, sulla candida federa orlata di ricami azzurrini. Lui osservò quel
viso che per tutta la vita lo aveva rassicurato. L’immagine era un’icona alla
bontà. Le rimboccò le coperte come faceva lei allora che lui, piccolo, le
chiedeva il bacio della buona notte.
Sentì il profumo
fresco di quelle parole, sentì il profumo di madre, avvertì il tocco leggero
della morte sulla spalla.
Ora i suoi capelli
si spargevano argentei e scendevano dal petto giù sull’avambraccio, in una
calda e vaporosa carezza. Percepiva il peso soffice della nuca contro la
spalla. Il pulsare delle vecchie vene sulla pelle accaldata e sudata ritmavano
una canzone che lei intonò con un sussurro.
La vecchia filastrocca che ben conoscevano e che lei timidamente
canticchiava quando era sicura che nessuno l’ osservasse o l’udisse.
Scesero copiose le
lacrime a rigare le guance di Al mentre fissava gli occhi della madre e si
rincontrarono i tristi sorrisi. Lei alzo lentamente le mani verso il viso del
figlio e con i palmi asciugò le lacrime. Sorridendo impercettibilmente si alzò
e come era venuta se ne andò lasciandolo seduto a guardare il vuoto che quelle
spalle curve lasciavano dietro di sé.
Stette li immobile
a fissare il paesaggio montano fino a ché il sole non proiettò le prime ombre
lunghe.
Fece fatica ad
alzarsi, gli dolevano i muscoli per l’immobilità e il torrido. Si avvicinò alla
macchina ed aprì la porta, fece per salire poi si fermò gettando un ultimo
sguardo nella direzione in cui era andata ma vide solo il paesaggio brullo e
cangiante e sentì il peso enorme del vuoto che lei dopo dieci anni ancora lasciava.
Salì in auto che
gli occhi erano ancora lucidi e riprese a salire verso il Psiloritis. Lasciò
Anogia sulla sinistra, oltrepassò Kalivos e Livadia, immergendosi in un
paesaggio lunare, tortuoso e brullo dove il giallo delle rocce silicee staccava
bagliori sulla nera creta. Era il
tramonto e le nuvole grigie cangianti si muovevano al vento e si andavano
colorando di rosso e giallo vivo,
costruendo scenari fantastici. Cavalieri e cavalli danzavano una guerra
infuocata tra strali di luce e scudi scuri di nuvole dai bordi profilati di
rosso, che si facevano di brace mentre il celo avvampava di battaglia.
Anche l’animo di Al
era simile ad un campo di battaglia e la stanchezza delle forti emozioni
cominciava a lasciare uno strascico. Desiderava di arrivare ma non sapeva dove.
Gli bastava un posto dove sedersi coperto da un tetto ed un lenzuolo sul quale
stendersi.
Prese per Zoniana,
un paesino montano formato da un gruppo di casupole e qualche ovile ma non trovò alcuna taverna, quindi invertì
la marcia e si ridiresse a Livadia.
Qui parcheggiò di
fronte all’unica taverna. Un vecchio edificio un po’ fuori paese con un ampio
giardino ed una veranda su pilastri di pietra e copertura in tralicci di legno
sulla quale rampicavano numerose viti. Di fronte all’ingresso un carrubo,
carico di frutti scuri e contorti, si ergeva come un soldato di guardia. Ormai
era sera e non aveva voglia di tornare e poi non gli andava di guidare di notte
tra le montagne su strade buie.
Entrò e chiese ad
un baffuto signore dal viso di cartapecora se poteva fermarsi per la notte.
Avevano alcune stanze per gli escursionisti che salivano al Psiloritis. Si fece
dare quindi la chiave. La stanza era semplice, dignitosa e pulita, il letto col
materasso duro ed il cuscino morbido, le lenzuola odorose di pulito, il bagno
grande con una vasca e non la solita doccia. Ad al piacque e la riempì di acqua
bollente poi, spogliatosi, vi si immerse e lasciò fuori solo la punta del naso,
come quando da piccolo si immergeva a guisa di sub nella vasca del bagno nuovo
della casa appena restaurata.
Si rilassò in quel
liquido amniotico dondolandosi al leggero movimento dell’acqua generato dal suo
respiro. Il caldo penetrò i pori della pelle e li deterse del sudore e delle
tensioni. Stette immerso una buona mezz’ora poi, mezzo bollito, quando si sentì
completamente rilassato ed il vortice del turbamento provocato dal sogno ad
occhi aperti sembrava quietarsi, si alzò, si avvolse l’asciugamano dirigendosi
verso la poltrona di vimini sul terrazzino che dava sulla via principale. Fumò
seduto, beandosi del paesaggio.
L’imbrunire gettava
ombre forti sulle strette viuzze del paese che scendeva lungo la china. Gli
alti muri di recinzione proteggevano le case e delimitavano l’intricato
andirivieni dei percorsi lastricati. Piccoli pertugi davano l’accesso a cortili
interni dove, le immancabili buganvillee, esponevano i fiori vermigli ai
tardivi bagliori del sole ed i cani latravano l’ultimo saluto al giorno che se
ne andava. Alcune massaie, con la sporta sotto braccio, si attardavano, in
crocicchio, per una chiacchera con le vicine di casa. Un mulo stanco trascinava
un carretto vuoto sul quale il contadino assonnato, appollaiato a cassetta,
dondolava la testa sulle spalle chine al ritmo delle ruote ferrate sul
ciottolato e, con la bacchetta in mano
poggiata sui ginocchi e le gambe penzoloni, canticchiava una nenia.
La penombra
sopraggiunta sfumava i contorni di case, persone e cose e a poco a poco
l’indaco portava la sera alla notte.
Immerso nel buio,
si sentiva meglio ed in grado di controllare le emozioni.
Telefonò che non
sarebbe rientrato.
Miriam con voce
calma e tranquilla. “Varda de no fare el
mona e torna casa san”.(Cerca di non fare lo stupidino e torna a casa
sano).
“Stà tranquìa cea che no me desmentego in giro, go
soeo voja de star tranquio e da soeo”.(Stai tranquilla piccola che non mi perdo, ho solo voglia di stare da
solo e tranquillo).
Nel darle risposta
pensò a quanto cara fosse per lui quell’amica e quanto importante fosse nella
sua vita. Sapeva che, se aveva un tono così pacato, era immersa nella lettura
di un libro che la intrigava molto. Immersa nella lettura si distaccava dal
mondo e diveniva sorda ad ogni evento turbativo della sua quiete e mostrava
grande comprensione alle richieste, purché la si lasciasse in pace.
Scese per ordinare
la cena. Alcuni trekkinisti, in divise tecniche, erano seduti in silenzio
intenti alla cena.
“Saranno sfiniti”. Pensò Al. “Neppure parlano”
Rivolse loro un
cenno di saluto col capo e si sedette. Mangiò costicine di agnello e patate
fritte, il suo piatto preferito. Innaffiò il tutto con due Mhitos fresche e al
termine, dopo un dessert di yogurt e marmellata, rigorosamente fatto in casa.
Trangugiò, con sorpresa del padrone, tre rakì uno di seguito all’altro. Aveva
bisogno di stordirsi, di ricordare e al contempo dimenticare. La visione ad
occhi aperti era ancora viva e lo agitava. A poco a poco, col quarto e quinto
rakì l’animo cominciò a rasserenarsi e lui si guardava intorno con aria tra lo
sbronzo e lo stupito. I trekkististi lo guardavano in silenzio, forse erano
svedesi, e lui ricambiava con cenni e sorrisi ma i loro visi rimanevano
imperturbabili.
“Mah! …. Forse è evidente che ho ecceduto con
l’alcool”:
Mormorò tra sé e sé.
“Oppure
sono solo stanchi”.
Quel silenzio non
era convincente. Nessun riscontro ai suoi cenni di “Salute” quando alzava il bicchierino verso di loro in segno
augurale. Era già la quinta volta e loro impassibili lo guardavano e basta,
senza curiosità, senza disprezzo, senza interesse, solo con sguardi vuoti e
inespressivi.
Al alzò il sesto
rakì in loro direzione.
“Ma ‘ndè in mona”. (1)
Proferì ad alta
voce. E indirizzò loro un ultimo sorriso aperto e cordiale.
Poggiò il
bicchiere, soddisfatto, concentrandosi su degli avventori locali che
discutevano animatamente giocando a carte. La taverna beccheggiava un po’, gli
pareva di essere in barca a vela nell’alto Adriatico. Si tenne fermo serrando
le mani sul sedile della sedia impagliata e si sentì più sicuro.
Se ne stette li
rigido una mezz’ora in attesa che l’effetto dell’alcool si attenuasse o gli
venisse un sonno della malora si da dormire pesantemente senza sogni.
L’alcool sfumava i
suoi effetti e lui sempre seduto con le mani serrate sul sedile osservò due
trekkiste entrare. Si sorprese del loro arrivo a quell’ora perché ormai era
buio e camminare per quelle montagne dai sentieri poco segnati o inesistenti
comportava abilità. Le osservò mentre chiedevano alla signora le chiavi e le
guardò salire la scala.
“Beh ….. mica male”.
Erano due donne sui
quarantacinque ben portati, biondo nordico, faccino tipo olandese, culetto
abbondante ma atletico.
“Beh …. Mica male”.
Si ripetè e chiese
alla signora dell’acqua. Cercava di dissolvere il torpore provocato
dall’eccesso di alcool e dopo una bottiglia d’acqua si alzò per
andare a pisciare. Si lavò poi il viso con l’acqua fresca e si riavviò alla
sala.
Le due trekkiste si
erano, intanto, sedute ad un tavolo dal suo e gustavano una coppa di yogurt e
miele.
“Macchè una coppa, quella è una terrina” . Pensò
Al.
Parlavano
sommessamente e lui non riusciva a percepire se l’idioma fosse olandese o
altro. Intese qualche parola simile al tedesco.
“Quindi
o olandesi o ... chissà”.
Mentre
le guardava e notava i lineamenti nordici duri ma perfetti, lo colse la tristezza
della solitudine. Una dolce melanconia si impossessò del suo animo a sostituire
l’angoscia che si andava attenuando sempre più. Loro ogni tanto lo fissavano
per poi tornare a confabulare. Si rese conto di essere l’oggetto del loro
discorrere e s’incuriosì fissandole insistentemente ma, imperterrite
un’occhiata e poi giù con il parlottio. Le occhiate furtive che gli indirizzavano lo incuriosivano.
Decise di agire. Si alzò e si diresse al loro tavolo e nel solito inglese da
web translator:
“Can I offer to drink?”(posso offrire da bere?)
“Yes, thanks”. Risposero prontamente, impertinentemente e semplicemente indirizzandogli
ampi sorrisi che mettevano in mostra dentature perfette.
“La semplicità ed i modi spicci e sinceri dei
nordici!”
Pensò, indicando la
sedia vuota e mimando la richiesta di potersi sedere.
Sentendosi
impacciato con l’inglese chiese.
“Speak you only English?”(parli solo inglse?)
“Also Danish and German” (anche danese e tedesco)
Quando sentì la
parolina magica “tedesco” si rincuorò e prese coraggio e rivolgendosi alla più
vicina delle due:
“Drinken wir etwas zusammen? (beviamo qualcosa assieme?)
“Dieses scheint mir ein guter Zeitpunkt um uns zu
Wissen” (questo mi sembra un buon momento per
conoscerci).
Al era un animale.
La timidezza non faceva parte di lui, al massimo la discrezione e quando il suo
atteggiamento non virava nell’arroganza della difesa, riusciva a essere un tipo
molto simpatico. Si sedette al loro tavolo ed invitò la faccia di cartapecora a
prendere l’ordinazione.
Un primo giro di
rakì ruppe il già sottile ghiaccio e le chiacchere fluirono copiose, dapprima
sulla giornata che loro avevano trascorso per i sentieri e sui meravigliosi
panorami che s’incontrano salendo il Psiloritis, poi a raccontare delle
aspettative del viaggio che avevano intrapreso nell’isola nel desiderio di
visitarla e conoscerla quanto più possibile.
Inevitabilmente il
dialogo assunse toni più personali, loro narrarono della vita in Danimarca e
della suggestione di vivere a Copenaghen. Alla richiesta di delucidazioni la
descrissero brevemente: piccola e cosmopolita,
piena di caffetterie e negozi, impreziosita dai migliori ristoranti
della Scandinavia. Rimasero però affascinate quando, affermando di vivere in
Veneto, descrisse Venezia e la vita ivi
trascorsa come universitario.
Il dialogo si
protrasse ancora un po’ su questi argomenti con il rischio di annoiare ma
infine arrivò la fatidica domanda:
“Sei sposato? Dov’è la tua compagna?”
A disagio e
tamburellando con le dita sul tavolo coperto dalla tovaglia di carta con stampata in azzurro l’isola, rispose:
“Lo sono stato, per ben due volte, anzi tre se si
considera una lunga convivenza”.
“Ma ora?”
“Ora sto tranquillo, non ho nessuna compagna.”
“Ma non ti senti solo, non ti manca una donna?”
“Assolutamente no”.
Mentì Al.
“Ma dove vivi ora?”
“Qui a Creta, in un paesino di cento anime,
Sarchos.”
Un’ espressione di
stupore e curiosità si stampò sul viso delle due.
“Si vivo qui da qualche mese. Ho deciso di
andarmene dall’Italia perché stanco e
demotivato da una professione e da una vita diventate banali e colme di
problemi e di stress”.
Si alzò in piedi
pure lui e con atteggiamento teatrale, sviluppato nello studio del teatro e
nelle recite tenute durante gli anni del collegio, declamò i versi finali una poesia
che un po’ ricordava di aver letto su “scritti sull’emigrazione”: “Lasciai le vicinanze
e persi le parole.
Partii con una valigia di vento
colma di cose senza nome.
Poi, con pazienza,
spiegò i contenuti delle frasi recitate ed il significato che avevano avuto per
lui quei versi. Loro rimasero, un solo momento, pensierose e poi:
E cosa fai per vivere?
Nulla?
Rispose Al con
semplicità.
Alla fine sul
tavolo giacevano numerosi bicchierini vuoti con le rispettive ampolline ed una
serie interminabile di piattini che accompagnavano la bevanda con pomodori,
olive, cetriolo e feta. Dopo che il viso di cartapecora, imbacuccato in un
vecchio turbante nero, ebbe liberato il tavolo ordinarono “baklavà” al miele e
rezina e fu il colpo di grazia. Tutto divenne facile, semplice ed ovvio. Non c’erano steccati, non c’erano barriere o
limiti agli argomenti che le reciproche curiosità stimolavano. Non c’era gap
culturale: erano europei e nordici. Non c’era gap sociale: entrambe erano
laureate e provenienti da famiglie benestanti come Al.
Anche Al era
curioso. Quelle donne non avevano uomini al seguito.
E voi? Siete mai state sposate?
“No”.
Fu la risposta
secca.
“Troppo secca”.
Pensò
E come mai?
Chiese incuriosito.
E a quel punto gli sorse un dubbio e domandò loro con disagio ben dissimulato.
Non è che siete amanti?
Scoppiarono in una
fragorosa e divertente risata. Una alzandosi in piedi, come aveva fatto lui
prima, mimando un atteggiamento lascivo si rivolse all’altra.
“Ma cara vedi come sono gli uomini, non conoscono
l’amicizia tra le donne, sono così malati che subito fraintendono”.
Per nulla
mortificato, solo un po’ sorpreso, Al si alzò e per tutta risposta tese la mano
a quella in piedi ed esclamò:
“Io mi chiamo Alex, vengo dall’Italia, sono un
architetto e ho sessant’anni e mi piace conoscere gente”.
Lei afferrò la mano
tesale.
“Io mi chiamo Grete e questa è la mia amica Karen,
viaggiamo per Creta perché amiamo l’avventura e vogliamo conoscere il mondo”.
Non c’era più
ghiaccio, se mai c’era stato. La risata che accompagnò quelle insolite
presentazioni suggellò un patto di confidenza e familiarità.
Si diressero,
barcollando, alle poltroncine della veranda, per smaltire i fumi dell’alcool
bevendo acqua e fumando a ripetizione. Il riso affiorava spesso e spontaneo,
tutti e tre padroneggiavano la lingua tedesca e la comunicazione fu facile,
veloce e naturale. Le donne erano disinibite e schiette per cui i discorsi
presero presto una piega alquanto piccante e l’alcool fu di grande aiuto nello
stuzzicarsi a vicenda.
Da più di un’ora
erano seduti sotto la veranda a conversare. Il momento volgeva all’epilogo ed
Al non voleva che la stanchezza, la noia o la mancanza di dialogo interrompesse
la magia del momento, per cui disse.
“Andiamo dormire?
Ed osservando il
cielo stellato senza luna.
“Domani ci sarà un’altra bella giornata!”
“Si, è ora”.
Risposero.
Si avviarono tutti
e tre verso la scala che portava alle stanze. Il padrone col turbante aveva già
spento le luci della sala e solo il riflesso dell’illuminazione di cortesia,
una fioca lampadina incassata in un pilastro, permetteva di orientarsi tra i
tavoli. Al reggeva per un braccio Grete mentre Karen ancheggiava un gradino più
su. Non che Grete avesse bisogno di aiuto ma ad Al piaceva quel contatto.
Karen si soffermò
sulla porta del numero quattro, Al era al numero sei, ed armeggiò con la
chiave. Aprì la porta ed entrò. Al aiutò Sophie ad oltrepassare la soglia e si
chiuse, col tallone, la porta alle
spalle.
Sua madre, giù
dalle scale, li guardava mesta.