lunedì 20 gennaio 2020

racconti in progress:

racconti in progress: 

AL PSILORITIS

La camera ora era diventata sua, il grande letto a due piazze con quattro materassi: due sotto di crine e due sopra di lana che ogni anno venivano rimessi a nuovo dai Rocco. Quasi tutta la famiglia: padre, madre e due figli,  arrivavano col carrettino agganciato alla bici con  sopra installato il loro aggeggio oscillante,  irto di chiodi curvi e a forma di bilanciere. Stazionavano sull’aia al primo sole di primavera e, dopo aver disfatto i materassi con attenzione togliendo le trapuntature, ammonticchiavano la lana su di un telo di nylon steso a terra. Con fare cadenzato e ritmato da filastrocche la dipanavano ben bene e la facevano ridiventare morbida e soffice, infine ricostruivano i materassi attenti a rifare le trapuntature sui precedenti solchi.

Da un anno, da quando suo padre aveva restaurato la casa, dormiva in quella stanza che fu dei nonni paterni. Grande più delle altre ma esposta a nord-est, quindi fresca d’estate e fredda d’inverno ma, non importava, “era la sua camera”. Aveva tutto, i comodini con i pitali, il comò a quattro cassettoni, la toilette con lo specchio sul quale ci si poteva rimirare a mezzo busto ed i cassetti laterali. Infine l’armadio a tre ante con il grande specchio centrale dove erano riposte anche le coperte ed i piumoni.

E coltre”.(i piumoni)

Era il suo regno. Li leggeva, studiava e disegnava. Amava dipingere come la zia Ofelia che si dilettava a copiare immagini di cartoline e ritratti dei divi di Hollyvood. Ne scaturivano immagini un po’ naif ma che mostravano capacità anche in mancanza d’insegnamenti. Lì lui declamava poesie e brani teatrali, i cui testi trafugava dall’archivio o dalla biblioteca della canonica, quando andava a servire messa come chierichetto. In quel luogo la fantasia si esplicava nelle forme insolite dell’immaginazione: avventure, viaggi in terre ignote, guerre guerreggiate a fil di spada, invenzioni ed emozioni.

Amava quella  la casa rinnovata, gli piaceva tutta ad esclusione del tetto che aveva sostituito il precedente, formato da una sequenza di falde a capanna che caratterizzavano l’edificio come una vecchia fornace per la calce.

Un giorno tornando da scuola, gli operai avevano tolto le impalcature, la copertura si mostrava nella sua nuova veste: due falde uniche anziché otto come prima, però poste una sull’altra ad altezza differenziata ed in conseguenza di ciò la prima falda, che dava sulla strada, finiva contro il muro che reggeva, un metro più su, la seconda;  ne risultava quella caratteristica e dozzinale architettura dei tetti degli anni ’60. Ad Alex non piacque, anzi la trovava una scemata, e corse incontro al padre padre, fermo in piedi sul cortile a discutere col geometra, gridando:

Popà …popà … i ga sbalià el querto, no el s’incontra de sora, serve che i lo rifassa, l’è cussì bruto co fa un cesso, a par ‘na casa che ghigna!” (papà..papà.. hanno sbagliato il tetto, non si incontra nel colmo, lo devono rifare perché è così brutto che sembra un water, sembra una casa che sogghigna!)

“No caro”.

Rispose il padre accarezzandolo sulla testa irta di capelli diritti come spaghi.

“A xe na roba moderna come che i fa desso” (E’ una modernità come si usa fare ora).

Accettò a malincuore la risposta, così come data e si allontanò mesto dalla figura paterna dirigendosi verso la porta che dava sulla sala grande dove la madre lo aspettava per il pranzo e, alzando gli occhi, lanciò ancora uno sguardo a quel tetto:

 “A xe na casa col ghigno,”

Al piano terra i vani erano adibiti a osteria  e nella sala grande troneggiava la stufa in ghisa subito a ridosso della porta d’ingresso. Sulla destra il vecchio bancone era stato sostituito, come i tavoli col piano in granito, da una serie di mobili moderni in formica: i tavoli rossi striati di bianco ed il banco bar, con la vetrinetta di vetro incassata per metà, era verde a chiazze bianche. La grande novità era la macchina per il caffè di marca Gaggia con un unico pistone. Al doveva salire su una cassa di legno, quelle vecchie, gialle della “cocacola”, per appendersi al pomolo della leva e tirare. Solo la grande cucina e la sala da pranzo conservavano, nei mobili, un vago ricordo della precedente ma la cucina di pietra con il piano in ghisa a tre fori con cerchi concentrici ed il trespolo a manovella per mescolare la polenta sul paiolo era  stata sostituita da una “cucina economica”. Così definivano allora le cucine a fuoco in lamiera smaltata di bianco. Era la zona privata ma una larga porta a vetri a tre ante, che dava sulla sala centrale dell’osteria, annullava tutta la possibile privacy.

Salutò la madre baciandola, buttò la cartella sulla sedia e, sconsolato per quel tetto col “ghigno”, si sedette in attesa che gli servisse il pranzo. 

“Oggi è sabato, dopo pranzo devi fare il bagno, il boiler è acceso e l’acqua quasi calda”

“Va bene”.

Rispose guardandola e sorridendole replicò:

“Oggi però lo faccio da solo”.

Poi, pappata la pasta e spazzolato il piatto con la mollica, senza proferire parola, salì le nuove scale in marmo fredde e rumorose ai passi e non calde e cigolanti come quelle vecchie di legno di larice, odorose di casa e di famiglia. Si chiuse in camera e denudatosi completamente si infilò sotto il piumone per scaldarsi un po’. Man mano che quella cuccia lo riscaldava la fantasia prendeva possesso ed Al iniziò uno dei soliti fantastici viaggi.

A destarlo la voce perentoria della madre che gli intimava di fare il bagno, la vasca era già colma e doveva fare presto perché poi sarebbe stata la volta dei fratelli.

“Se te te desbrighi el bagno te o fè da soeo se no te o fè co Carlo”. (se ti sbrighi il bagno lo fai da solo altrimenti in vasca ci viene anche Carlo).

            Di solito faceva il bagno con i fratelli, due alla volta per risparmiare sull’acqua calda poiché il boiler funzionava a legna e bastava per riempire una sola volta la vasca, poi bisognava aspettare almeno mezz’ora. Al solo pensiero di condividere quello stretto spazio, di dover stare rannicchiato su un lato mentre il fratello si lavava sull’altro, saltò giù dal letto e si diresse al bagno rabbrividendo al fresco del corridoio, entrò nell’acqua calda e si distese per tutta la lunghezza della vasca.

Un sommozzatore della X^ Mas che si immergeva nelle profondità marine alla ricerca di pertugi sulle reti di protezione del porto dove stavano ancorate le corazzate. Doveva trovare un passaggio per minare gli scafi nemici. A bordo del suo siluro a lenta corsa stava transitando tra le maglie tagliate della rete di protezione quando:

“E ora gheto finio?” (e allora hai terminato?)

La voce calda della madre interruppe l’avventura nautica. Al si levò dalla vasca, prese l’asciugamano grande, verde come la sua pianura padana e si asciugò troppo in fretta, lo gettò umido sullo sgabello e corse nudo, ancora gocciolante, attraverso il corridoio lastricato con marmette in graniglia di marmo, policrome ma fredde e, rimpiangendo le precedenti assi di larice, apri con uno spintone la porta della camera. Si rinfilò sotto il piumone, tiepido del suo calore e immaginò un’altra avventura.

Da un po’ si stava avventurando tra i meandri di un fiume lento, coronato da salici e pioppi a bordo di una canoa di pelle di daino, armato di arco e frecce, quando la voce di sua madre lo strappò nuovamente dal suo viaggio fantastico.

“Ti sei vestito … lo sai che devi fare i compiti. Non si dorme al pomeriggio se prima non si è compiuto il proprio dovere”

Sua madre, santa donna, non lo capiva. Lui aveva bisogno di quegli spazi lontani, di quelle fughe nel regno della fantasia. E alla sera rincarava la dose di raccomandazioni.

“Te digo de metterte e mudande no ze va in leto sensa e tegnate a majeta dea saeute)” (Ti ripeto di infilarti le mutande, non si va a letto senza e tieni addosso la maglietta di lana).

            Predicò la madre affacciandosi alla porta per capire cosa fosse successo al figlio, di solito allegro e rumoroso e ora imbronciato e silente. Quindi sospirando e scuotendo la testa la richiuse.

Al, coperto fino al naso, prima alzarsi diede un occhiata alla camera soffermandosi sul ritratto della madre: i capelli neri, corvini, gli occhi ridenti di un nocciola chiaro che quell’immagine in bianco e nero appesa alla parete, tra le due finestre della camera da letto, non  rendeva. Il profilo perfetto e il sorriso che appena traspariva lo ammaliavano.  La foto era stata collocata nella camera proprio difronte al letto in radica scura di noce nazionale. Lei, nella postura dei tre quarti, lo guardava col sorriso appena abbozzato, i capelli raccolti da una treccia che cingeva la nuca come la corona di una principessa. Lei era una principessa: bella come potrebbe esserlo una fiaba, luminosa come il mattino, evanescente come un pensiero, grande come tutte le madri. L’immagine troneggiava in un ovale profilato d’oro come la cornice, unica nota di colore.

Ogni sera, quando si stendeva sul grande piumone d’oca che fu della zia, ammirava quella foto che suo padre volle lì. Amava quel volto sereno. Gli infondeva pace, lo portava in giro con i sogni.  Assieme visitavano luoghi remoti, fantastici, inaccessibili ai più,  tutti quelli che poteva immaginare un ragazzino di dieci anni che leggeva di tutto oltre ai romanzi di avventura che gli comperava la madre: dal breviario sottratto al prete nel servizio domenicale di chierichetto alle riviste di moda francese che trovava nella sartoria della zia, dai giornali vecchi rubati sul retro del magazzino del tabaccaio alle riviste osè che aveva trovato nella camera del nonno. Amava leggere. La lettura era la sua porta per la libertà.

            “E ora te e gheto messe? (Allora te le sei infilate?)

            “No mama, no me e meto” (No mamma, non le indosso!)

            “Almanco metate e braghe del pigiama” (Almeno indossa i pantaloni del pigiama.)

            “No se ghin parla gnanca”. (non se ne parla nemmeno)

            Così costruì la sua abitudine a dormire senza mutande e quando poteva anche senza pigiama. Di notte tutto quello che non fosse quel grande piumone che lo difendeva dai rigori dell’inverno o il leggero e fresco lenzuolo di raso d’estate lo sentiva soffocante.

            Gli otto anni di collegio furono una battaglia continua. Compagni e chierici lo guardavano con disapprovazione o curiosità e a volte con desiderio quando si denudava per infilarsi il solo pigiama. Dormire nudo lì era impossibile ed anche non consigliabile. Aveva un fisico asciutto, muscoloso e scattante, praticava tutti gli sport praticabili in quel collegio rinomato ma il suo desiderio di nudità cozzava con quel luogo celibe.

            “Gheto fato, vegno dentro?” (Hai fatto, posso entrare?)

            “Ma si mama, te o zè che te poi vegnere drento, ostia, te me ghe fato ti” (Ma si mamma, lo sai che puoi entrare, cavolo, mi hai fatto tu!)

            “O so, ma no sta ben mostrare e vergogne” (Si ma non sta bene mostrare le nudità). Rispose entrando.

            Ma, mama, te me fe fare el bagno so a vasca co e mudande anca co zo da soeo. Pasiensa co o fazo co me fradei”. (Ma, mamma, mi fai fare il bagno nella vasca con le mutande addosso anche quando sono da solo. Pazienza quando lo faccio assieme ai miei fratelli).   

            Lei guardò il figlio e sorrise. Prese le mutandine bagnate che Al aveva appena poggiato sul comodino e lo guardò con amore. Dal piumone spuntava solo la testa umida e arruffata.  Si avvicinò ed accarezzò i capelli umidi. Quel tocco pervase Al di un’intensa emozione d’amore e rispetto per la madre. Come una fiamma scaldò il ragazzino tremante immerso nelle volute del grande piumone e… due sorrisi si incontrarono felici. Conservava il ricordo di quel momento, era una reliquia piantata nel cuore che nei momenti tristi lo rasserenava e gli infondeva forza. Il pensiero di sua madre lo seguiva quotidianamente, era la sua compagna di viaggio.

Lei uscì dalla stanza con la roba sporca sottobraccio e Al ammirò quella schiena perfetta disegnata dalla camicetta lavorata ad uncinetto, solo un po’ incurvata dalle fatiche di una famiglia numerosa, dalla gestione di un’antica “hostaria” e di un marito tendenzialmente scapestrato.

Aveva questi ricordi quando si svegliò alle prime lame del sole che, filtrando tra le foglie della folta buganvillea del portico, entravano dalla finestra aperta. Sul letto si spandeva un baluginio di chiari e scuri e sembrava ad Al di galleggiare in un mare immenso senza orizzonti. Probabilmente, pensò, erano i frammenti di un sogno. Tornava forse da un viaggio cosmico con sua madre, uno di quei viaggi che aveva tanto sognato negli anni della pubertà.

A poco a poco prese consapevolezza. La stanza si raddrizzò e tutto riprese ordine. Dalla porta filtravano i rumori della prima colazione che Miriam stava preparando. Insolitamente si era alzata per prima. La colazione era sempre stato un suo compito: fare il caffè, scaldare l’acqua per il te e intiepidire il latte, tagliare il pane e abbrustolirlo in forno, tagliare il burro a dadi affinché si ammorbidisse ed imbandire la tavola. Era un rito che gli piaceva e che gli permetteva, un po’ alla volta, di riconnettersi con la quotidianità. Vestendosi guardò fuori dalla portafinestra della camera pensando alla giornata che si presentava: il sole splendente, in cielo nessuna nuvola e la leggera brezza che veniva dal mare faceva ondeggiare i rami carichi di verde e fucsia della buganvillea abbarbicata al pilastro di legno davanti al portico della camera che dava ad ovest.

Nel vestirsi, come al solito dormiva nudo, si guardò allo specchio appeso alla parete: “la pancia non c’è più…la pancia non c’è più  canticchiò sotto voce. Si sarebbe lavato dopo colazione. Da quando era arrivato a Creta, pur mangiando con appetito ed in quantità, aveva perso undici chili e riacquistato una forma fisica invidiabile per l’età. Strizzando l’occhio alla figura che lo guardava dallo specchio si complimentò con se stesso ed uscì dalla camera.

Miriam lo attendeva seduta sotto il portico con l’immancabile libro poggiato sulla tavola imbandita e gli occhiali da vista calati sul naso. Leggeva due libri alla settimana, anche tre. Quando non c’erano ospiti di cui occuparsi la sua attività principale era stare sdraiata al sole a bordo piscina e leggere. Al invece andava a pescare.

Ciao, che bella giornata!”.

Miriam, intenta alla lettura, rispose con un cenno della testa.

“Oggi che si fa? I prossimi ospiti arrivano tra tre giorni.”

“Io sto a casa, devo anche fare il bucato e la piscina è da pulire”.

Rispose alzando gli occhi e guardandolo da sopra l’archetto degli occhiali.

E di rimando:

 “Ok, lo so, poi vado a pescare a Panormo”.

 Disse versandosi il the bollente sulla nuova tazza dall’interno verde, acquistata il dì prima a Rethymno in un negozio di “second hand”.

Fecero colazione a bordo piscina, senza chiacchere, solo due parole per organizzare la rispettiva giornata. Quei giorni non essendoci clienti da coccolare, colazioni o cene da preparare, erano  solo di assoluta libertà. Lei decise quindi di prendere il sole in piscina e leggere lui, abbandonata l’idea della pesca, di fare una lunga camminata dopo aver pulito la piscina dalle foglie portate dal vento serale. Aveva intenzione di visitare le zone attorno ad Anogia, dove era già stato, per analizzare eventuali percorsi da fare in autunno quando il sole avrebbe allentato la sua morsa di calura.

Preparò lo zainetto e calzò gli scarponcini da trekking prima di prendere la strada per Heraklion e poi la deviazione per Perama, che l’avrebbe indirizzato alla volta del Psiloritis (che in greco significa “il più alto”) dove il Monte Ida ne rappresenta la vetta. Fece però un salto al porticciuolo di Panormo per un caffè con l’amica Marta che gestiva un kafeneio e non gliela dava perché sposata.

Attraversò Perama alla volta di Agia Sillas, la strada era larga ed asfaltata, le curve dolci non lo impegnavano tanto e poteva bearsi del paesaggio.  A sinistra si apriva la valle scavata dal fiume Geropotamos,  giù in basso tra le pareti scoscese e brulle un serpente verde di querce e castagni seguiva l’andamento dei meandri allargandosi nelle parti interne delle curve dove l’acqua stagnava. Si domandava se ci fosse anche qualche esemplare di Platanus Orientalis, un sempreverde che si trova solo nell’isola. Amava documentarsi sui luoghi che avrebbe visitato.

Solo a tratti si poteva scorgere il letto del fiume ora quasi asciutto per il caldo torrido dell’estate e la mancanza di precipitazioni. Nella gola, sui pendii pascolavano greggi di pecore che lentamente scendevano verso il fondo valle. Il culmine della canicola lo trascorrevano accovacciate ai piedi degli alberi. Non un pastore, non un cane da guardia, sarebbero arrivati più tardi per ricondurle all’ovile. Il poco traffico lo lasciava nella sua tranquilla guida da spettatore. Passata Sillas ed il bivio per Garazo continuò nella direzione per Damavolos lasciando sulla sinistra il paesetto di Kafali. Tutto intorno alla strada che cominciava a salire, distese immense di oliveti tenuti come giardini e irrigati da una rete fitta di tubi neri che come vene portavano il rigoglio su quella terra aspra e secca e cosparsa di rocce e sassi. L’orientamento e la regolarità delle piantumazioni dei vigneti inframezzati da zone boschive e radure scabre disegnavano un paesaggio damascato di verde e ocra che l’arsione faceva ondeggiare quasi come un miraggio.

Al prese la bottiglia d’acqua che stava infilata nella nicchia sul cruscotto nero reso incandescente dal sole  e bevve un sorso d’acqua calda storcendo la bocca. Non aveva l’abitudine di usare il climatizzatore, gli piacevano i finestrini aperti e l’aria tra i capelli. Si accese una sigaretta e poggiò l’avambraccio sulla sede del finestrino abbassato.

Affascinato dal paesaggio, lo confrontava con i ricordi di Puglia e Sardegna cogliendone le analogie. Respirava un’aria densa di profumo d’erba e foglie secche , si inebriava delle fragranze di ciste e malva che si andavano spegnendo, di dianto, ginepro e asperula. Ogni tanto qualche fiordaliso di Creta dal cuore bianco e i bordi di un indaco che virava al violetto attiravano la sua attenzione. Si fermava, scendeva a guardarli con la bottiglia di plastica in mano e li bagnava un po’ nella speranza che al ritorno potesse ancora ammirarli.

Una foto e via di nuovo sulla strada che lentamente portava ad Agios Ioannis lasciando Kefali sulla sinistra abbarbicato sul costone con le case biancheggianti al sole ed il serpeggiare della sterrata che lo raggiungeva strisciante come una biscia. Il paesaggio iniziava a mutare, diveniva sempre più secco ed agresto, agli uliveti si sostituivano rocce e argilla scura in un andirivieni di chine e distese, valli e doline cosparse di cespugli spinosi dai fiori gialli ed azzurrini. L’orizzonte si allargava cogliendo le vedute sul Piloritis o monte Ida dove nacque il mito: da Rea nacque Zeus che la capra Amaltea sfamò e allevò.

La strada s’avviluppava  alle montagne ora in dolci salite ora fiancheggiando orridi e strapiombi.  Al guidava con attenzione e rilassatezza ed ogni tanto si fermava dove la strada in una curva o in uno spiazzo permetteva vedute mozzafiato. A volte scorgeva anche il mare in lontananza. Il sole abbacinante lo costringeva agli occhiali da sole e al frontino abbassato, sicché per osservare doveva alzare il mento e traguardare. Il silenzio assoluto era rotto solo da un leggero fruscio d’erba secca agitata da qualche folata di vento. Quella leggera brezza scrollava i capelli ma non faceva altro rumore.

Man mano che procedeva il paesaggio si faceva sempre più arido e spoglio e il sole, riverberato dalle pietre bianche, diveniva sempre più abbagliante, sicché abbassò anche il frontalino parasole dell’auto. Il silenzio divenne assoluto, anche il vento taceva. Cominciava a sentire l’ansia premere sullo sterno. La gioia che aveva con sé dal mattino lasciava lentamente posto ad un senso di insicurezza, di precarietà. Lo colse l’agitazione del dubbio. Il paesaggio che lo affascinava da rigoglioso lo vedeva e sentiva divenire brullo e sterile e capì che stava per giungere un momento di sconforto. Gli capitava, quando teneva a freno per troppo tempo le emozioni dei ricordi: la figlia, il paese lasciato, il lavoro.

“Mi devo fermare”.

Mormorò a bassa voce.

“I xe i me soiti colpi de mona” (sono i miei soliti momenti di rovescio).

Fermò l’auto su ciglio della strada, in un piccolo slargo e scese. Si sedette su di un masso squadrato, dall’aspetto foresto, forse lasciato ai tempi della costruzione della strada, poggiò la bottiglia e prese il pacchetto di sigarette.

 “Una fumatina”.

Disse ad alta voce, osservando il fumo salire stanco nella calura, in attesa che passasse quell’affanno, quel cruccio che lo aveva assalito di sorpresa. Alzò lo sguardo al cielo, su in alto, con le ali aperte, strideva un falco stagliato contro il sole: solo e magnifico.

 Di fronte a lui si apriva una piana cosparsa di ciuffi e arbusti a disegnare come una grande pelle di leopardo.  Il vuoto annullava i pensieri e i pori aperti coglievano rumori e umori in una tensione di indefinito. Era intento ad assaporare i profumi ed ascoltare i pochi fruscii che, soffiando ogni tanto, la brezza estiva gli portava ovattati dal caldo silenzio, quando ebbe la necessità inconsulta di voltarsi, lo fece …. e vide sua madre. Era lì seduta accanto che lo guardava con l’espressione serena e severa come nel tempo in cui, vecchia, lo apostrofava per qualche rimbrotto. Lo osservava silenziosa, con occhi amorosi, nocciola, annacquati dagli anni e dalla cataratta, seria ma, al contempo, il sottile e appena accennato sorriso gli sussurrava l’amore che per lui aveva sempre provato. Lo conosceva e lo coglieva tra le rughe evidenti dell’età, nel bagliore di quegli occhi spenti ma vivi, nei capelli grigi cadenti che conservavano solo un ricordo del nero corvino. Lo scosse un tremito. Lei lo guardava, come sempre, piena di affetto, come quando, soli, si sorridevano in ogni occasione d’incontro ed un singhiozzo scaturì dalla sua gola. Lei, come quella volta che andò a farle visita in ospedale, seduti ambedue sul bordo del letto, poggiò la testa sulla sua spalla  destra e non disse altro.

Ricordò il giorno della visita quando lei, con la testa china sulla sua spalla mormorò: “Al …. Che vita dura…. Ti sono riservate prove difficili … Io prego, prego sempre che Lui ti dia la forza, che illumini il tuo cammino e quello di tua figlia... Sento che ritroverà la strada ma …” La pausa durò a lungo. Sembrava annaspare in una miriade di pensieri. Alzava spesso gli occhi umidi ad osservare il soffitto come per cercare una risposta, come se di lassù qualcuno le suggerisse le parole e riprese asciugandosi una lucida lacrima sulla spalla del figlio. Poi, continuando a guardarlo fisso negli occhi cerulei:

“Promettimi che le vorrai sempre bene…. E’ l’unico modo per salvarla”

Concluse accarezzando la mano destra del figlio e con voce fioca:

“Sono stanca, aiutami, desidero sdraiarmi”

Al si alzò ponendosi di fronte ed abbassandosi in modo che lei potesse cingergli il collo con le braccia e farsi sollevare. Si stese sul lenzuolo bianco poggiando la testa sul soffice cuscino di piuma che si era portata da casa. Con un gesto dolce, caratteristico della sua natura, con la mano sparse i capelli grigi, ormai lunghi, sulla candida federa orlata di ricami azzurrini. Lui osservò quel viso che per tutta la vita lo aveva rassicurato. L’immagine era un’icona alla bontà. Le rimboccò le coperte come faceva lei allora che lui, piccolo, le chiedeva il bacio della buona notte.

Sentì il profumo fresco di quelle parole, sentì il profumo di madre, avvertì il tocco leggero della morte sulla spalla.

Ora i suoi capelli si spargevano argentei e scendevano dal petto giù sull’avambraccio, in una calda e vaporosa carezza. Percepiva il peso soffice della nuca contro la spalla. Il pulsare delle vecchie vene sulla pelle accaldata e sudata ritmavano una canzone che lei intonò con un sussurro.  La vecchia filastrocca che ben conoscevano e che lei timidamente canticchiava quando era sicura che nessuno l’ osservasse o l’udisse.

Scesero copiose le lacrime a rigare le guance di Al mentre fissava gli occhi della madre e si rincontrarono i tristi sorrisi. Lei alzo lentamente le mani verso il viso del figlio e con i palmi asciugò le lacrime. Sorridendo impercettibilmente si alzò e come era venuta se ne andò lasciandolo seduto a guardare il vuoto che quelle spalle curve lasciavano dietro di sé.

Stette li immobile a fissare il paesaggio montano fino a ché il sole non proiettò le prime ombre lunghe.

Fece fatica ad alzarsi, gli dolevano i muscoli per l’immobilità e il torrido. Si avvicinò alla macchina ed aprì la porta, fece per salire poi si fermò gettando un ultimo sguardo nella direzione in cui era andata ma vide solo il paesaggio brullo e cangiante e sentì il peso enorme del vuoto che lei dopo dieci anni ancora lasciava.

Salì in auto che gli occhi erano ancora lucidi e riprese a salire verso il Psiloritis. Lasciò Anogia sulla sinistra, oltrepassò Kalivos e Livadia, immergendosi in un paesaggio lunare, tortuoso e brullo dove il giallo delle rocce silicee staccava bagliori  sulla nera creta. Era il tramonto e le nuvole grigie cangianti si muovevano al vento e si andavano colorando di rosso e  giallo vivo, costruendo scenari fantastici. Cavalieri e cavalli danzavano una guerra infuocata tra strali di luce e scudi scuri di nuvole dai bordi profilati di rosso, che si facevano di brace mentre il celo avvampava di battaglia.

Anche l’animo di Al era simile ad un campo di battaglia e la stanchezza delle forti emozioni cominciava a lasciare uno strascico. Desiderava di arrivare ma non sapeva dove. Gli bastava un posto dove sedersi coperto da un tetto ed un lenzuolo sul quale stendersi.

Prese per Zoniana, un paesino montano formato da un gruppo di casupole e qualche ovile  ma non trovò alcuna taverna, quindi invertì la marcia e si ridiresse a Livadia.

Qui parcheggiò di fronte all’unica taverna. Un vecchio edificio un po’ fuori paese con un ampio giardino ed una veranda su pilastri di pietra e copertura in tralicci di legno sulla quale rampicavano numerose viti. Di fronte all’ingresso un carrubo, carico di frutti scuri e contorti, si ergeva come un soldato di guardia. Ormai era sera e non aveva voglia di tornare e poi non gli andava di guidare di notte tra le montagne su strade buie.

Entrò e chiese ad un baffuto signore dal viso di cartapecora se poteva fermarsi per la notte. Avevano alcune stanze per gli escursionisti che salivano al Psiloritis. Si fece dare quindi la chiave. La stanza era semplice, dignitosa e pulita, il letto col materasso duro ed il cuscino morbido, le lenzuola odorose di pulito, il bagno grande con una vasca e non la solita doccia. Ad al piacque e la riempì di acqua bollente poi, spogliatosi, vi si immerse e lasciò fuori solo la punta del naso, come quando da piccolo si immergeva a guisa di sub nella vasca del bagno nuovo della casa appena restaurata.

Si rilassò in quel liquido amniotico dondolandosi al leggero movimento dell’acqua generato dal suo respiro. Il caldo penetrò i pori della pelle e li deterse del sudore e delle tensioni. Stette immerso una buona mezz’ora poi, mezzo bollito, quando si sentì completamente rilassato ed il vortice del turbamento provocato dal sogno ad occhi aperti sembrava quietarsi, si alzò, si avvolse l’asciugamano dirigendosi verso la poltrona di vimini sul terrazzino che dava sulla via principale. Fumò seduto, beandosi del paesaggio.

L’imbrunire gettava ombre forti sulle strette viuzze del paese che scendeva lungo la china. Gli alti muri di recinzione proteggevano le case e delimitavano l’intricato andirivieni dei percorsi lastricati. Piccoli pertugi davano l’accesso a cortili interni dove, le immancabili buganvillee, esponevano i fiori vermigli ai tardivi bagliori del sole ed i cani latravano l’ultimo saluto al giorno che se ne andava. Alcune massaie, con la sporta sotto braccio, si attardavano, in crocicchio, per una chiacchera con le vicine di casa. Un mulo stanco trascinava un carretto vuoto sul quale il contadino assonnato, appollaiato a cassetta, dondolava la testa sulle spalle chine al ritmo delle ruote ferrate sul ciottolato e,  con la bacchetta in mano poggiata sui ginocchi e le gambe penzoloni, canticchiava una nenia.

La penombra sopraggiunta sfumava i contorni di case, persone e cose e a poco a poco l’indaco portava la sera alla notte.

Immerso nel buio, si sentiva meglio ed in grado di controllare le emozioni.

Telefonò che non sarebbe rientrato.

Miriam con voce calma e tranquilla. “Varda de no fare el mona e torna casa san”.(Cerca di non fare lo stupidino e torna a casa sano).

“Stà tranquìa cea che no me desmentego in giro, go soeo voja de star tranquio e da soeo”.(Stai tranquilla piccola che non mi perdo, ho solo voglia di stare da solo e tranquillo).

Nel darle risposta pensò a quanto cara fosse per lui quell’amica e quanto importante fosse nella sua vita. Sapeva che, se aveva un tono così pacato, era immersa nella lettura di un libro che la intrigava molto. Immersa nella lettura si distaccava dal mondo e diveniva sorda ad ogni evento turbativo della sua quiete e mostrava grande comprensione alle richieste, purché la si lasciasse in pace.

Scese per ordinare la cena. Alcuni trekkinisti, in divise tecniche, erano seduti in silenzio intenti alla cena.

“Saranno sfiniti”. Pensò Al. “Neppure parlano”

Rivolse loro un cenno di saluto col capo e si sedette. Mangiò costicine di agnello e patate fritte, il suo piatto preferito. Innaffiò il tutto con due Mhitos fresche e al termine, dopo un dessert di yogurt e marmellata, rigorosamente fatto in casa. Trangugiò, con sorpresa del padrone, tre rakì uno di seguito all’altro. Aveva bisogno di stordirsi, di ricordare e al contempo dimenticare. La visione ad occhi aperti era ancora viva e lo agitava. A poco a poco, col quarto e quinto rakì l’animo cominciò a rasserenarsi e lui si guardava intorno con aria tra lo sbronzo e lo stupito. I trekkististi lo guardavano in silenzio, forse erano svedesi, e lui ricambiava con cenni e sorrisi ma i loro visi rimanevano imperturbabili.

“Mah! …. Forse è evidente che ho ecceduto con l’alcool”:

 Mormorò tra sé e sé.

 “Oppure sono solo stanchi”.

Quel silenzio non era convincente. Nessun riscontro ai suoi cenni di “Salute” quando alzava il bicchierino verso di loro in segno augurale. Era già la quinta volta e loro impassibili lo guardavano e basta, senza curiosità, senza disprezzo, senza interesse, solo con sguardi vuoti e inespressivi.

Al alzò il sesto rakì in loro direzione.

“Ma ‘ndè in mona”. (1)

Proferì ad alta voce. E indirizzò loro un ultimo sorriso aperto e cordiale.

Poggiò il bicchiere, soddisfatto, concentrandosi su degli avventori locali che discutevano animatamente giocando a carte. La taverna beccheggiava un po’, gli pareva di essere in barca a vela nell’alto Adriatico. Si tenne fermo serrando le mani sul sedile della sedia impagliata e si sentì più sicuro.

Se ne stette li rigido una mezz’ora in attesa che l’effetto dell’alcool si attenuasse o gli venisse un sonno della malora si da dormire pesantemente senza sogni.

L’alcool sfumava i suoi effetti e lui sempre seduto con le mani serrate sul sedile osservò due trekkiste entrare. Si sorprese del loro arrivo a quell’ora perché ormai era buio e camminare per quelle montagne dai sentieri poco segnati o inesistenti comportava abilità. Le osservò mentre chiedevano alla signora le chiavi e le guardò salire la scala.

“Beh ….. mica male”.

Erano due donne sui quarantacinque ben portati, biondo nordico, faccino tipo olandese, culetto abbondante ma atletico.

“Beh …. Mica male”.

Si ripetè e chiese alla signora dell’acqua. Cercava di dissolvere il torpore provocato dall’eccesso di  alcool  e dopo una bottiglia d’acqua si alzò per andare a pisciare. Si lavò poi il viso con l’acqua fresca e si riavviò alla sala.

Le due trekkiste si erano, intanto, sedute ad un tavolo dal suo e gustavano una coppa di yogurt e miele.

“Macchè una coppa, quella è una terrina” .            Pensò Al. 

Parlavano sommessamente e lui non riusciva a percepire se l’idioma fosse olandese o altro. Intese qualche parola simile al tedesco.

 “Quindi o olandesi o ... chissà”. 

            Mentre le guardava e notava i lineamenti nordici duri ma perfetti, lo colse la tristezza della solitudine. Una dolce melanconia si impossessò del suo animo a sostituire l’angoscia che si andava attenuando sempre più. Loro ogni tanto lo fissavano per poi tornare a confabulare. Si rese conto di essere l’oggetto del loro discorrere e s’incuriosì fissandole insistentemente ma, imperterrite un’occhiata e poi giù con il parlottio. Le occhiate furtive  che gli indirizzavano lo incuriosivano. Decise di agire. Si alzò e si diresse al loro tavolo e nel solito inglese da web translator:

“Can I offer to drink?”(posso offrire da bere?)

“Yes, thanks”. Risposero prontamente, impertinentemente e semplicemente indirizzandogli ampi sorrisi che mettevano in mostra dentature perfette.

“La semplicità ed i modi spicci e sinceri dei nordici!”

Pensò, indicando la sedia vuota e mimando la richiesta di potersi sedere.

Sentendosi impacciato con l’inglese chiese.

“Speak you only English?”(parli solo inglse?)

“Also Danish and German” (anche danese e tedesco)

Quando sentì la parolina magica “tedesco” si rincuorò e prese coraggio e rivolgendosi alla più vicina delle due:

“Drinken wir etwas zusammen? (beviamo qualcosa assieme?)

“Dieses scheint mir ein guter Zeitpunkt um uns zu Wissen” (questo mi sembra un buon momento per conoscerci).

Al era un animale. La timidezza non faceva parte di lui, al massimo la discrezione e quando il suo atteggiamento non virava nell’arroganza della difesa, riusciva a essere un tipo molto simpatico. Si sedette al loro tavolo ed invitò la faccia di cartapecora a prendere l’ordinazione.

Un primo giro di rakì ruppe il già sottile ghiaccio e le chiacchere fluirono copiose, dapprima sulla giornata che loro avevano trascorso per i sentieri e sui meravigliosi panorami che s’incontrano salendo il Psiloritis, poi a raccontare delle aspettative del viaggio che avevano intrapreso nell’isola nel desiderio di visitarla e conoscerla quanto più possibile.

Inevitabilmente il dialogo assunse toni più personali, loro narrarono della vita in Danimarca e della suggestione di vivere a Copenaghen. Alla richiesta di delucidazioni la descrissero brevemente: piccola e cosmopolita,  piena di caffetterie e negozi, impreziosita dai migliori ristoranti della Scandinavia. Rimasero però affascinate quando, affermando di vivere in Veneto,  descrisse Venezia e la vita ivi trascorsa come universitario.

Il dialogo si protrasse ancora un po’ su questi argomenti con il rischio di annoiare ma infine arrivò la fatidica domanda:

“Sei sposato? Dov’è la tua compagna?”

A disagio e tamburellando con le dita sul tavolo coperto dalla tovaglia di carta con  stampata in azzurro l’isola, rispose:

“Lo sono stato, per ben due volte, anzi tre se si considera una lunga convivenza”.

“Ma ora?”

“Ora sto tranquillo, non ho nessuna compagna.”

“Ma non ti senti solo, non ti manca una donna?”

“Assolutamente no”.

Mentì Al.

“Ma dove vivi ora?”

“Qui a Creta, in un paesino di cento anime, Sarchos.”

Un’ espressione di stupore e curiosità si stampò sul viso delle due.

Si vivo qui da qualche mese. Ho deciso di andarmene dall’Italia perché   stanco e demotivato da una professione e da una vita diventate banali e colme di problemi e di stress”.

Si alzò in piedi pure lui e con atteggiamento teatrale, sviluppato nello studio del teatro e nelle recite tenute durante gli anni del collegio, declamò i versi finali una poesia che un po’ ricordava di aver letto su “scritti sull’emigrazione”:                  Lasciai le vicinanze

e persi le parole.

Partii con una valigia di vento

colma di cose senza nome.

Poi, con pazienza, spiegò i contenuti delle frasi recitate ed il significato che avevano avuto per lui quei versi. Loro rimasero, un solo momento, pensierose e poi:

E cosa fai per vivere?

Nulla?

Rispose Al con semplicità.

Alla fine sul tavolo giacevano numerosi bicchierini vuoti con le rispettive ampolline ed una serie interminabile di piattini che accompagnavano la bevanda con pomodori, olive, cetriolo e feta. Dopo che il viso di cartapecora, imbacuccato in un vecchio turbante nero, ebbe liberato il tavolo ordinarono “baklavà” al miele e rezina e fu il colpo di grazia. Tutto divenne facile, semplice ed ovvio.  Non c’erano steccati, non c’erano barriere o limiti agli argomenti che le reciproche curiosità stimolavano. Non c’era gap culturale: erano europei e nordici. Non c’era gap sociale: entrambe erano laureate e provenienti da famiglie benestanti come Al.

Anche Al era curioso. Quelle donne non avevano uomini al seguito.

E voi? Siete mai state sposate?

“No”.

Fu la risposta secca.

“Troppo secca”.

 Pensò

E come mai?

Chiese incuriosito. E a quel punto gli sorse un dubbio e domandò loro con  disagio ben dissimulato.

Non è che siete amanti?

Scoppiarono in una fragorosa e divertente risata. Una alzandosi in piedi, come aveva fatto lui prima, mimando un atteggiamento lascivo si rivolse all’altra.

“Ma cara vedi come sono gli uomini, non conoscono l’amicizia tra le donne, sono così malati che subito fraintendono”.

Per nulla mortificato, solo un po’ sorpreso, Al si alzò e per tutta risposta tese la mano a quella in piedi ed esclamò:

“Io mi chiamo Alex, vengo dall’Italia, sono un architetto e ho sessant’anni e mi piace conoscere gente”.

Lei afferrò la mano tesale.

“Io mi chiamo Grete e questa è la mia amica Karen, viaggiamo per Creta perché amiamo l’avventura e vogliamo conoscere il mondo”.

Non c’era più ghiaccio, se mai c’era stato. La risata che accompagnò quelle insolite presentazioni suggellò un patto di confidenza e familiarità.

Si diressero, barcollando, alle poltroncine della veranda, per smaltire i fumi dell’alcool bevendo acqua e fumando a ripetizione. Il riso affiorava spesso e spontaneo, tutti e tre padroneggiavano la lingua tedesca e la comunicazione fu facile, veloce e naturale. Le donne erano disinibite e schiette per cui i discorsi presero presto una piega alquanto piccante e l’alcool fu di grande aiuto nello stuzzicarsi a vicenda.

Da più di un’ora erano seduti sotto la veranda a conversare. Il momento volgeva all’epilogo ed Al non voleva che la stanchezza, la noia o la mancanza di dialogo interrompesse la magia del momento, per cui disse.

“Andiamo dormire?

Ed osservando il cielo stellato senza luna.

“Domani ci sarà un’altra bella giornata!”

“Si, è ora”.

Risposero.

Si avviarono tutti e tre verso la scala che portava alle stanze. Il padrone col turbante aveva già spento le luci della sala e solo il riflesso dell’illuminazione di cortesia, una fioca lampadina incassata in un pilastro, permetteva di orientarsi tra i tavoli. Al reggeva per un braccio Grete mentre Karen ancheggiava un gradino più su. Non che Grete avesse bisogno di aiuto ma ad Al piaceva quel contatto.

Karen si soffermò sulla porta del numero quattro, Al era al numero sei, ed armeggiò con la chiave. Aprì la porta ed entrò. Al aiutò Sophie ad oltrepassare la soglia e si chiuse, col tallone,  la porta alle spalle.

Sua madre, giù dalle scale, li guardava mesta.



L'amore, insano desiderio


L’amore, insano desiderio

Mi dicesti
l’amore non basta mai
è un vizio
un buco nero che tutto assorbe.
Ti nutrivi di me
annullandomi.
Consumavi l’energia
risucchiando speranze.
Un futuro improbabile
dissolveva il cosmo senza tempo
e la speranza periva con la bramosia.
Mi dicesti
non basta amare
e l’afflizione divenne futuro.