venerdì 24 febbraio 2017

LA TAVERNA


PREGHIERA
La vetta era ancora lontana. Il sole scendeva velocemente e le rade nubi scure, immobili nel cielo terso,  proiettavano l’ombra sulle colline in fondo coronate, più in la, dalle Withe Mountains innevate che risplendevano degli ultimi bagliori pomeridiani.
La chiesetta lassù l’avrebbe raggiunta in poco più di un’ora. Si stagliava giusta sulla sommità a protendersi verso il cielo. Non un alito di vento nella tiepida primavera che giungeva. L’erba invernale, verde e gracile si piegava morbida sotto il passo cadenzato.
“Ancora un’ultimo sforzo”.
Piccola, bianca, con una croce sul tetto a volta, in pietra candida rifletteva gli ultimi raggi e sembrava fluttuare nel cielo.
“Mi fermerò un pò, poi scenderò col buio”.
Era abituato ai percorsi notturni illuminati dal solo chiarore delle stelle. Voleva sostare un poco e stare raccolto con i pensieri,  accarezzare le emozioni, forse le paure ed entrò spingendo il piccolo battente della porta che si apriva sul muro bianco.  La luce fievole della finestrella in alto, sopra la porta, illuminava appena i quattro banchi e l’altare, il crocifisso dipinto su un pannello a sfondo dorato sospeso al soffitto contro la parete di fondo, l’inginocchiatoio per le confessioni e alcuni santi in blu dipinti sulle pareti . Tutto era in penombra.
“Che pace”.
Si sedette, poggiò la testa sulle ginocchia e pregò. Cosa inusuale ma ne aveva proprio voglia,  poi si drizzò sullo schienale del banco e guardò il crocifisso che luccicava debolmente riflettendo la luce della finestra di fronte. Lentamente  scivolò nel passato più remoto. Pensò a sua madre morta da qualche anno e sentì ancora il vuoto della dipartita. Non era stato capace di riempire la cavità del cuore in cui dimorava l’amore per lei. Non si era arreso all’ineluttabilità degli eventi che costruiscono la vita. I riflessi dorati che apparivano e poi subitamente sparivano per l’ondeggiare di quel corpo appeso lo ipnotizzavano, meccanicamente iniziò a muovere le labbra.
“Sola,  ti abbiamo lasciata andare da nostro padre partito anzitempo e che hai raggiunto,  desiderosa di completare il viaggio interrotto.
Ascoltavo spesso, non veduto, i soliloqui nei quali esternavi le tue paure. I tuoi rancori repressi mi rattristavano ma li esprimevi sottovoce solo quando, non veduta, armeggiavi in cucina. Mi dispicevo nella consapevolezza della sofferenza, del disagio che ti sei portata appresso.
Ti ho vista riversa sul letto, quella mattina che dovevo partire.  Fredda, immobile e rigida come l’espressione delle labbra bloccate in un terreo e debole sorriso, senza ombra di dolore e di paura. Forse solo un pò di dispiacere di andartene così, senza salutarci. Avevi forse qualcosa da dire e non l’hai detto? Non mi hai mai parlato delle tue vere sofferenze se non dopo, quando erano passate e già cementate in te.
Ricordo l’espressione del tuo viso serio, i tuoi sguardi lontani, proiettati oltre l’oggi, ora indagatori, ora supplici ma privi di richieste se non di una semplice domanda di presenza.
Oggi pranza con me.
Mi dicevi affacciandoti alla finestra del mio ufficio che dava sul giardino. 
Non hai chiesto approvazione per i tuoi atti e mai hai dubitato della tua missione facendoti forte di una presenza perenne. Quando mi guardavi con gli occhi seri, tristi e sconsolati, per una nipote problematica che hai amato e accolto come hai fatto con noi,  ho sentito il peso del tuo dovere sopportato con dignità.
Ho goduto del tuo amore ma poco delle tue carezze.  Mamma presente sempre ma lontana, immersa in un desiderio che ti rendeva intoccabile e bramata da un bambino che moriva di ammirazione. Era come sentirsi pieno, calcato di venerazione, non c’era spazio per altro, ancora una goccia e tutto sarebbe straripato andandosene. Come mi diceva un’amica, forse dovevamo parlare di più e ormai è tardi se non per i rimpianti o per le emozioni che riesco a ricordare con questa mente malata. 
I tuoi occhi “ancora mi scrutano quasi a voler sapere  ciò che io stesso non so”. Uccidi, ti prego, per un’unica e definitiva volta, per sempre,  questo cancro che mi divora e che mi hai donato insieme alla vita. Con lo sguardo mi hai sempre seguito, con affetto ci siamo cercati innumerevoli volte ma ho sempre costruito muri e lasciato pertugi di solo amore: unica dimensione che è sempre stata nostra. E’ in nome di questo affetto che ti chiedo, anche se vecchio, di completare l’operazione debolmente iniziata,  di chiarezza, di accoglimento o di finale e fatale rifiuto. Ho sempre avuto bisogno delle tue parole anche se non le ascoltavo.
Ci sono giorni nei quali l’emozione del tuo ricordo mi toglie la voglia di vivere perché di lottare contro le avversità non ne ho più voglia.  In altri, la stessa si chiude intorno a me come a proteggermi ma mi sento soffocato in essa pur godendo nella memoria dei momenti trascorsi assieme.  Altri ancora,  mi aprono i segreti ricordi, ormai quasi dimenticati, dei miei successi ed insuccessi che tu, da distante, commentavi o quelli delle mie azioni che approvavi o disapprovavi o, come un angelo anche castigatore, seguivi.
E ricordo quando correvo nudo per i campi col temporale che rovesciava su di me pioggia e freddo e i piedi poggiavano su erba, acqua e fango in un rumore di vita piena e tu non ti capacitavi del mio bisogno di spogliarmi e fuggire. E quando mi cercavi in bici lungo gli argini del fiume mentre io, nascosto tra le canne della riva, infreddolito poiché era aprile, ascoltavo i tuoi richiami disperati mentre gridavi angosciata il mio nome ... e poi sberle a non finire.  Quanto ti ho voluto bene mamma! E quando mi hai sfidato dal dottore perché ti avevo detto che togliere i punti dalla gamba era una cazzata e non serviva recarsi all' ambulatorio. Apersi le graffe che tenevano il taglio fattomi dal cugino con una sciabolata, ne avevamo costruite due togliendo dalla macchina dello zio d’america due lame dalle balestre. In quell’occasione ti ho mostrato con orgoglio quanto fosse semplice per me accettare il dolore ... sono un uomo, dissi, e mi accarezzasti la testa. E quando hai saputo che, per la prima volta, leccai la mona di un’amichetta non mi hai picchiato ma ti sei messa a piangere ... io non capivo allora ... e mi dicesti solo: non è bene.  Quando per dispetto, per uno schiaffo di mio padre, ho impiccato il gallo alla trave del magazzino tu semplicemente e guardandomi, senza proferire parola e punirmi, lo hai cucinato. 
Più recenti ricordi mi uniscono al tuo nome. Ti sei rammaricata fino alle lacrime quando vi ho imbrogliato sulla data della laurea. Temevo la vostra presenza genitoriale e volevo solo farvi una sorpresa: il primo laureato in famiglia. Al matrimonio non hai eccepito alcunché, hai solo detto: sei sicuro? Quando nacque mia figlia mi hai sorriso dicendomi: che bella bambina, fatene ancora. Alla  separazione hai detto solo: questa è casa tua.
Sono il terzo. Quello senza collocazione, quello che si basta, quello che “tanto è lo stesso”, che sa sopportare e capire. Sono quello che contesta e scompiglia  e che, diversamente da altri, ubbidisce e nel contempo nega la stessa obbedienza. Mio padre diceva: tu porti disordine in famiglia. Sei sempre stata presente, dedita al dovere anche tu come me,  perchè da te l’ho imparato. “Bisogna esserci anche senza voglia”. Tutto era sempre faticoso, pesante così tanto che anche le gioie ricavate erano grevi.
Da piccolo anche i sorrisi erano rari ma non la mia felicità di vederti, di osservarti, di accarezzare la tua pelle liscia e bianca. La tua voce era un inno alla vita, uno stimolo, uno stantuffo che mi percuoteva il cuore. Non so perché mi son sempre portato dentro, e l’ho trasmesso a mia figlia, il bisogno di sentirmi approvato, considerato, figlio importante forse unico. Una carezza, un bacio, pochi di noi li hanno avuti in abbondanza ma tutti ti abbiamo amato per la dedizione donataci.
Tutti ti abbiamo amato, nelle forme diverse a noi caratteristiche, ma la tua bravura nel tenerci uniti si è incrinata con la tua dipartita. Ogni sera guardo la tua foto, mi sembri lontana come quando non ci capivamo nelle discussioni, nei confronti.  Il dialogo non ci ha avvicinati ma la pelle si, lo stare seduti vicini a guardarci, sentire che c’eravamo. Questo ci ha uniti. Abbiamo necessariamente avuto tutti  percorsi diversi. Io mi sono allontanato dai tuoi desideri ma ci ha uniti un parallelismo che ci permetteva di controllarci anche da lontano.
Vedo ancora il tuo viso tra le frasche di una riva, dietro il banco dell’osteria o china su di me da piccolo. Poche volte sei stata china su di me ma le ricordo tutte. Non facevano male  i tuoi scapaccioni, non mi hanno mai fatto male neppure quando mi hai rotto il naso. Lo dicevi pure tu che ero un mulo e forte come un toro. Le tue sberle erano come carezze perché mi facevano sentire il tuo calore.  Volevo che qualcuno mi stringesse ma non eri quasi mai tu a farlo. Forse per questo ho tenuto al petto mia figlia ogni momento che potevo dandole solo affetto e poca maestria ma non ne avevo neppure io. A lei non ho creato questo vuoto doloroso ma un altro, forse peggiore, per la mia incapacità di amare diversamente.
Ora, la memoria un pò mi tradisce, ricordo il calore della famiglia quando era unita, di noi fratelli e di voi genitori un po' più in la. Sono quel che sono, così come mi hai fatto e conosciuto, in bilico tra la trasgressione ed il dovere, con l’unica sicurezza del mio affetto per te che è sempre stato sincero, di quella sincerità che ha rovinato parte della mia vita. Io, dichiarato bugiardo, non ho mai mentito. Le bugie sono altro e poco importanti.
Ho un solo rammarico: non ho potuto parlarti di me, non avresti capito”.
Aveva le lacrime agli occhi quando si alzò. Prese il bastone da passeggio che aveva poggiato sulla panca e si caricò lo zaino sulle spalle. Uscendo si girò per guardare il crocifisso che splendeva un pò di più. Fuori il buio si era accomodato sulle montagne. In fondo alla valle brillavano poche luci a indicare la meta.
“Spero di non smarrirmi ancor di più”.
S’incamminò nelle tenebre rotte da un brillio di stelle che illuminavano poco il sentiero e lo costringevano ad una discesa lenta e attenta. Aveva modo di stare così con i pensieri come dentro la chiesa.  Il volto della madre davanti, dietro tutta una vita. La tristezza lo pervadeva, certo che la fine sarebbe giunta presto.
“Che sia indolore”.
        Scendendo recitò una poesia che aveva scritto e non ebbe il coraggio di farla leggere ad alcuno.

Ho pregato mia madre di nome Speranza

Davanti alla tua immagine
dimentico e smarrisco,
atti e azioni
opere e imprese.
Confondo i contorni di figlio già vecchio.
Azioni dimenticate,
desideri rimasti tali
confondono il passato.
Di padre, di figlio
conservo il ricordo,
di uomo non so.
Raccontami chi ero.
La vita squassata
ha dissolto la memoria.
Dimmelo tu che mi guardi seria
volgendo lo sguardo
al nostro passato.
Canta la storia
esorcizza il mio vivere inquieto.
Dimmelo tu che scruti lontano
e speri nel nome che porti.
auspicio di bene.